«Il teatro mi ha salvato la vita»: Intervista a Giorgio Gori

NAPOLI – Attore, regista e sceneggiatore per televisione, cinema e teatro. Giorgio Gori, Classe ’87, sarà al Teatro Bolivar, sabato 6 e domenica 7 aprile, con lo spettacolo “Re Ferdinando di Borbone e Pulcinella” per la regia di Giampiero Notarangelo. Abbiamo intrattenuto con lui una piacevole conversazione in cui ci ha svelato qualche anticipazione sullo spettacolo e raccontato alcune considerazioni sul mondo del teatro.

Lo spettacolo teatrale “Re Ferdinando di Borbone e Pulcinella” ha tratto ispirazione dal film “Ferdinando I Re di Napoli” di Franciolini con i De Filippo, Mastroianni e Vittorio De Sica. Cinema e Teatro, quali sono le tue considerazioni?

Per quanto mi riguarda non è una novità trarre ispirazione dal cinema per lavori teatrali. Anche io tre anni fa ho portato uno spettacolo tratto da un film, che era “the Nine”, omaggio a Federico Fellini. Questo spettacolo invece non nasce dalla mia penna ma di quella del regista Giampiero Notarangelo che mi ha proposto di collaborare ed io ho accettato. Sicuramente portare il cinema a teatro è un prodotto di marketing che funziona. Purtroppo, mi dispiace dirlo, il cinema attira molto più del teatro, quindi alcuni testi di pellicole cinematografiche, portati a teatro, assicurano la presenza di quel pubblico che già ha avuto modo di apprezzarli sul grande schermo. Io sono dell’idea che teatro e cinema sono due cose distinte e separate, sia per questioni tecniche recitative che per sceneggiatura e montaggio. Però sono anche dell’idea che una storia è possibile raccontarla a cinema, a teatro, in una piazza come anche tra amici al bar. Quindi se la storia funziona si può adattare al teatro e con una corretta sceneggiatura è un prodotto che può funzionare. Questo spettacolo è un riadattamento del film, ne abbiamo stravolto i canoni ed abbiamo ovviamente adeguato le parti a noi giovani attori. Io sarò Pulcinella ma non mi permetterò mai di paragonarmi ad Eduardo De Filippo.

Quanto senti tue le vesti di questo pulcinella rivoluzionario?

Io di mio sono un rivoluzionario, sono uno che si arrabbia e cerca di cambiare le cose che poi non ci riesce e si arrabbia ancora di più. Pulcinella per me è una sfida personale. E’ una maschera di Napoli, una delle principali della Commedia dell’Arte. Indossavo molto queste maschere quando studiavo all’Accademia. Io con il teatro ci gioco molto, invento e scrivo ma non dimentico mai le origine classiche. Ed è un consiglio che do a tutte quelle persone che vogliono affacciarsi in questo mondo, quello di partire sempre dai classici. Non si diventa attori o autori salendo sul palco e dicendo stupidaggini.

E’ sicuramente un consiglio per i giovani che stanno studiando. Cos’altro gli diresti? In cosa individueresti delle possibili insidie?

Qui si scriverebbe un libro che manco Umberto Eco! La Rai ci farebbe una puntata di tre anni. Insidie? ce ne sono tante, è un mondo difficile. Lo riassumo in due parole, è una guerra tra poveri. Ci sono i ragazzi che vogliono fare e ci sono i vecchi che non vogliono fare ma ci vogliono essere. Questo contrasto non finirà mai. Pochi posti di lavoro e tante persone che lo vogliono. Inevitabilmente si creano battaglie. Io però dico una cosa, se un ragazzo ha le spalle coperte, e con questo non voglio intendere raccomandazioni, ma intendo studio, disciplina, volontà e soprattutto costanza. Ce la fa, se uno ha voglia ed ha studiato, prima o poi ci riesce. Quando lavoro a spettacoli di cui è mia la regia, le mie prime lezioni ai ragazzi sono sempre di teatro, sul mondo del teatro, non solo sui classici ma anche su SIAE, ENPALS, cosa significa trattare un contratto di lavoro e i rapporti con i gestori dei teatri. Mi è capitato di avere ragazzi bravissimi che sanno tutte le opere a memoria e poi nel concreto non si sanno relazionare con il mondo teatrale. Ho imparato sulla mia pelle che si recita di più quando si è a contatto con i direttori artistici che quando si sta sul palco! A parte gli scherzi, io finché non sto sul palco sono stressato e recito. Nel momento in cui salgo sul palco non recito più, divento naturale.

Cosa può aspettarsi il pubblico da questo spettacolo?

Sicuramente tante risate. Il film già di suo era molto comico. Siamo un cast di diciotto giovani attori più cinque ballerine. Abbiamo aggiunto una parte musicale con le coreografie di Luisa Pellino, che lavora con me da anni. Ci sono costumi firmati da Marta Matano che sono costumi dell’epoca. L’atmosfera è molto coinvolgente. Una cosa che anticipo, sperando che la regia non mi ammazzi, è che ci sarà un contatto diretto con il pubblico e non posso dire altro altrimenti mi linciano. Non possiamo fare Spoiler, come dicono i giovani. Consiglio molto al pubblico questo spettacolo per riscoprire l’attualità di certe considerazioni di Pulcinella.

Facendo riferimento ai tuoi lavori recenti, hai portato anche in scena l’Avanspettacolo, riproponendo al pubblico Totò, Macario, Eduardo e Fabrizi.  E’ stato il frutto di tue ricerche?

Si, questo spettacolo è ancora oggi in scena. E’ stata una mia ricerca sull’Avanspettacolo ma come dice stesso il titolo “Vi racconto l’Avanspettacolo ma a modo mio” perché, lo dico sempre, non so ballare e non so cantare quindi lo faccio a modo mio. E’ una chiacchierata amichevole con il pubblico, specialmente quello giovane, in cui descrivo e racconto delle sue evoluzioni e involuzioni, chiaramente tutto in chiave comica. Nel mentre omaggio i grandi del passato con alcuni sketch che non sono molto conosciuti o sono stati dimenticati. Sono stato molto contento quando ragazzi nel salutarmi nel camerino mi hanno detto che sarebbero andati su Youtube a cercare i video originali. Per me questa è una vittoria.

Ti sei cimentato in ruoli di diverso genere ma il cabaret sembra restare il tuo genere prediletto. Qual è la tua idea di cabaret?

La risata del pubblico risiede nella testa. Se ride di testa vuol di che ha capito, se ride di pancia vuol dire che ride per canoni comici. Il cabaret vuole anche inviare un messaggio. Può sfociare nella satira, al giorno d’oggi si parla di Black Comedy o di Stand Up Comedy. Il cabaret è una forma d’arte che va rispettata ma si deve fare attenzione a non usarla male. Alcuni ragazzi pensano che la comicità sia fare due minuti, di cui un minuto e cinquantotto di tormentoni e due secondi di “buongiorno e buonasera”. Non è più cabaret ma esasperata ricerca di popolarità. Al cabaret di oggi manca lo studio della ricerca della comicità. Ti dico che negli anni ’60 o ’70, i comici come Walter Chiari o Bramieri raccontavano barzellette e potevano andare avanti anche per un’ora e mezza ed il pubblico non si stancava, c’era una cultura incredibile. Il livello di interesse del pubblico si è abbassato perché standardizzato sul pop show. La rai trasmette dei programmi di teatro molto belli ma alle tre di notte, che lo vedo io, il casellante e Gigi Marzullo! Io credo che al pubblico si debba offrire più qualità, che poi sanno apprezzarla. Lo dimostra il picco di ascolti per il programma “Cavalli di Battaglia” di Gigi Proietti su Rai uno. Si dovrebbe dare spazio ai nuovi attori e mostrare rispetto per i loro sacrifici e quelli dei genitori che hanno accompagnato i figli avanti e indietro per farli studiare a teatro. Mio padre mi portava in giro per tutta Italia per farmi esibire in un paesino sperduto della provincia per poi tornare alla quattro di notte a Napoli. Questo c’è dietro, e se non lo facciamo vedere, la gente non lo saprà mai.

Domanda di rito. Quando hai capito che la tua vita sarebbe stata sposata al Teatro?

Bellissima domanda. Io sono molto timido, mi vergognavo di parlare in pubblico però in famiglia a casa raccontavo le barzellette, a mia madre, mio padre e a mio zio in privato zitto zitto. Ero molto appassionato di tutti i programmi comici dell’epoca, come Zelig o TeleGaribaldi che all’epoca a Napoli era fortissimo. Io li guardavo con passione nonostante stessi studiando arte drammatica. Mi affascinava l’idea di scrivere situazioni comiche. Ricordo ancora la data, era il 18 luglio 1999, ero in un ristorante in cui c’era il pianobar e mi buttarono a fare un pezzo di cabaret con cose che avevo scritto da piccolo. Io sono esploso, non mi aspettavo che potessi suscitare la risata del pubblico ma soprattutto che dovessero togliermi il microfono da mano. Io che avevo paura di parlare davanti alla gente ero lì e non avevo nessuna intenzione di smettere. Capii che a me piaceva far ridere, ho combattuto per dimostrarlo partecipando a tanti concorsi di cabaret in cui arrivavo quasi sempre in finale. Non vincevo mai, ero una sorta di Toto Cotugno del cabaret. Entrai nel gruppo di Zelig Off ed approdai in seguito nel gruppo che oggi si chiama Made in Sud. All’epoca eravamo tutti ragazzi che andavano in giro per locali e ristoranti, ci pagavano con una birra e patatine. E questo è l’aspetto dolente. Quindi si, quel momento mi fece capire che mi piaceva, ma la conferma della volontà di resistere l’ho avuta nel tempo. Sicuramente avevo notato che mi sentivo bene solo quando ero sul palcoscenico. Io dico sempre che il teatro mi ha salvato la vita perché sono molto timido e soffro di carenza di autostima. Sono molto autocritico. Stando sul palco mi sentivo un leone. Anche un mio difetto che è quello della mia “r” moscia, l’ho fatta diventare una caratteristica del mio personaggio e mi ha portato fortuna. Ancora oggi arrivano momenti di incertezza sul cammino da intraprendere in questo mondo ma poi penso che sono giovane e che ho la fortuna di avere qualcuno che mi supporta e mi sopporta. In questo io trovo il mio coraggio.

Giorgio Gori, dopo questo spettacolo, sarà a fine aprile a Roma ancora con la sua ricerca sull’avanspettacolo e dal 12 maggio a Napoli al Teatro Lazzari Felici in scena sempre con Luisa Pellino nello spettacolo “Gori e Pellino divisi a Berlino”, che descrive quel muro virtuale che separa l’uomo dalla donna.