RECENSIONE – La produzione di Baba Yaga Teatro intitolata “Ninfa Plebea – la favola in musica” è andata in scena lo scorso 10 luglio a Sala Assoli, inserita nella programmazione del Campania Teatro Festival 2025, il cui claim per questa edizione è “Battiti per la Pace”. La missione di questa rassegna è chiara sin dal titolo: scuotere gli spettatori dall’indifferenza che porta a violenza. Ninfa Plebea risponde a pieno, consegnando al pubblico un lavoro davvero potente che riesce ad omaggiare e far risplendere il testo dello scrittore partenopeo Domenico Rea, che con questo romanzo vinse il Premio Strega nel 1993.
La nostra ninfa, la protagonista di questa trama, è Miluzza. Una ragazza popolare, abitante in un basso, insieme a sua mamma e suo nonno, a Nofi, luogo rurale e di fantasia vicino Napoli. L’incipit ci introduce a lei nel momento in cui suo nonno sceglie di raccontarle una favola. “La vuoi sentire la storia di Catuccia, quando nel bosco incontrò un orco peloso e grosso come una montagna?”. La favola ha sempre avuto il merito di riuscire a veicolare la verità, anche quella cruda e dolorosa, rendendola più accettabile. Se immaginiamo le ninfe, potremmo descriverle tra le acque e i boschi, candide. La nostra ninfa è invece popolare, con sguardo tristemente profondo, giovane e pura nonostante il suo vissuto, spettatrice di storture in casa e succube di circostanze non scelte. Intorno a lei si alternano orchi dai mille volti.
“Ninfa Plebea” è un testo sull’abuso. Uomini che approfittano di un corpo di ragazzina. E lo fanno nel modo più subdolo, mascherandolo. Scambiandolo con denaro, col tono dell’offerta di una caramella. «...che manelle fresche ca’ tiene, Minuzzè, si nu fiato ‘e ddio. ‘O vuò, ‘e pigliatillo! È d’argiento. E mò vattenne e nun dicere niente a mammate si no chella chi ‘o sa che se penza». L’orco violenta e poi regala, una moneta, una catenina, un vestito. L’abuso è nel corpo, ma anche nell’identità e nell’infanzia rubata. A Miluzza quella dimensione di esistenza viene imposta, e scopre sé stessa attraverso quel che la circonda. «E tanto mi ero familiarizzata col puzzo lasciato dagli altri e da me stessa che avevo finito per identificare il puzzo come l’espressione stessa del mio corpo». I personaggi sono netti, l’orco è l’orco e la vittima è la vittima. Lo spettatore assiste anche a momenti crudi, a gemiti, con nessuna possibilità di intervenire. La battuta forse più importante di tutto lo spettacolo, invita a distinguere tra puzze e profumi, tra ciò che fa bene e ciò che fa male.
Brillante, intensa e delicata, la regia di Rosalba Di Girolamo che crea un lavoro corale davvero convincente. La previsione della musica che diventa preghiera, danza, poesia e pianto, tra tradizione e modernità, arricchisce tantissimo lo spettacolo. Con la voce di Annalisa Madonna e la musica dal vivo di Jennà Romano che si avvicendano in composizioni originali e rielaborazioni. Magnetica Luna Fusco, la giovane attrice nelle vesti di Miluzza e molto calzante Antonello Cossia, sia nei panni degli orchi che in quelli del dolcissimo nonno. Spettacolare l’interpretazione di Rosalba Di Girolamo, profondissima e commovente in alcuni passaggi, e nella magia che riesce a regalare.
Se si pensa ad altri lavori di Baba Yaga Teatro, si può dire oramai distintiva la missione di dare nuova luce a testi che meritano di essere approfonditi. Con un’impronta che riesce a condurre ed incantare. Presente in sala anche la figlia di Domenico Rea, Lucia, che ha collaborato alla sceneggiatura e si è unita nell’inchino finale visibilmente commossa e grata.
Foto di Nunzia Esposito















