Ne “Il gelo” di Mimmo Borrelli il cuore di Eduardo

RECENSIONE – Fino al 27 marzo nella sala del Piccolo Bellini in scena “Il gelo”, spettacolo con il quale il drammaturgo Mimmo Borrelli omaggia il maestro Eduardo De Filippo.

Era il 15 settembre del 1984 ed Eduardo De Filippo, nella sua ultima apparizione pubblica a Taormina, nell’atto di ritirare un premio, tenne un discorso che espresse, con commozione, il suo immenso amore per il teatro. In quelle parole lui volle descrivere una vita di sacrifici, che lo tenne lontano dalla famiglia, che lo consumò tra ansie, solitudine e gelo. «Voi sapete che io ho la nomina che sono un orso, ho un carattere spinoso, che sfuggo, sono sfuggente. Non è vero. Se io non fossi stato sfuggente, se non fossi stato un orso, se non fossi stato uno che si mette da parte, non avrei potuto scrivere 55 commedie. [..] È stata tutta una vita di sacrifici e di gelo! Così si fa il teatro, così ho fatto! Ma il cuore ha tremato sempre tutte le sere, tutte le prime rappresentazioni e l’ho pagato! Anche stasera mi batte il cuore e continuerà a battere anche quando si sarà fermato». Un mese e mezzo dopo, lui si spense ma, come da promessa, il suo cuore non ha smesso di battere nel teatro italiano.

Nel 2022 il sindaco Manfredi chiese a Borrelli di formulare una lezione che potesse omaggiare Eduardo nell’anniversario della sua nascita: l’uomo, la passione ed il suo genio. In quel momento è possibile individuare la genesi di quello che, adesso, impreziosito dal disegno luci di Salvatore Palladino, dalle musiche originali di Antonio Della Ragione e dalla produzione di Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini, si è evoluto in uno spettacolo teatrale che, nella forma di reading, cuce tra loro il cuore di De Filippo e la visceralità di Borrelli.

L’accesso di Borrelli in scena è angosciante. Alcuni rantoli e movimenti spasmodici introducono a quella che sembra essere una seduta spiritica. Ad essere evocate sono tre anime raccontate da Eduardo, anime inquiete: Padre Cicogna, prete che si spreta; Vincenzo De Pretore, ladro in cerca di un santo protettore; e Baccalà, un guitto conosciuto nel rione. Le tre storie giungono dai pometti scritti tra il 1949 e il 1969, e si intrecciano ad una serie di battute storiche da altre opere che, nell’evocarle, sono ulteriore omaggio anche agli attori che hanno calcato la scena con lui. Lo stile di Borrelli è un’impronta a firma, con i suoi accenti, tra lingua arcaica e dialetti flegrei. Il pugno nello stomaco arriva anche stavolta, ed in modo sorprendente scoppiano tra il pubblico anche le risate, nei cambi di registro inattesi.

La poesia, scritta dallo stesso Borrelli, è un appassionato tributo alla solitudine di Eduardo. Ai momenti di gelo in cui sedeva al suo scrittoio in cerca di ispirazione, o quelli in cui doveva far quadrare i conti per pagare i cachet. Quelli in cui doveva gelarsi per non farsi sopraffare dall’emozione, e quelli in cui il gelo si sostanziava nella paura di non sentire un applauso. Sacrificio, solitudine e vuoto, questa la condanna della passione per il teatro. Dove la creatività di quelle parole immortali, si spoglia di genialità per un’intima confessione di sofferenza. «Chi scrive è sulo, cu Dio e ’a passione/ de nu triato ca è cundanna e vita,/ sulo dint’a chella frustrazione/ r’ ’u fallimento prossimo all’uscita».

Immagini di scena (Ph. Flavia Tartaglia).