«La prima impressione è d’esser piovuti nel palazzo di un imperatore orientale. Gli occhi sono abbagliati, l’anima rapita. Niente di più fresco ed imponente insieme, qualità che si trovano così di rado congiunte». Stendhal – pseudonimo letterario di Henri Beyle – Energia, passione, orrore dell’ipocrisia, desiderio della natura, inseguimento della felicità, egotismo – rimase a bocca aperta per essersi trovato di fronte a cotanta bellezza: il Teatro San Carlo. Come lo scrittore francese, anche noi oggi siamo indotti a considerare il Massimo napoletano un simbolo di bellezza impareggiabile ed immutabile. Ma le cose non stanno proprio così. Il teatro di Napoli- il più antico d’ Europa – ha cambiato varie volte pelle, come un gigante della cultura che si è adattato alle epoche. Cedendo anche alle frivolezze e ai più profani accadimenti, al mutamento delle tendenze e delle esigenze del suo ormai eterogeneo pubblico. Accanto a Piazza del Plebiscito sorge il tempio lirico italiano costruito nel 1737 per volontà del Re Carlo III di Borbone intenzionato a dare alla città un nuovo teatro che rappresentasse il suo potere. Anticipando di 41 anni la Scala di Milano e di 55 la Fenice di Venezia, il Teatro San Carlo fu edificato grazie al progetto dell’architetto Giovanni Antonio Medrano, Colonnello Brigadiere spagnolo di stanza a Napoli, e ad Angelo Carasale, già direttore del San Bartolomeo, il quale ultimò la “real fabrica” in circa otto mesi. Il disegno di Medrano prevedeva una sala lunga 28,6 metri e larga 22,5 metri, con 184 palchi, compresi quelli di proscenio, disposti in sei ordini, più un palco reale capace di ospitare dieci persone, per un totale di 1379 posti. L’inaugurazione, avvenuta la sera del 4 novembre 1737, giorno onomastico del sovrano, fu affidata all’ Achille in Sciro di Pietro Metastasio, con musica di Domenico Sarro . Se fossimo entrati al Massimo nel corso del Settecento avremmo trovato il pubblico impegnato nelle più svariate attività perfino il gioco d’azzardo. Anche quando si svolgevano gli spettacoli, che vedevano impegnati famosi soprani e contralti castrati, si giocava nei palchi e nei retroparchi, tra il fumo aspro dei sigari e qualche imprecazione incoraggiata dall’alcool. I palchi avevano proprietari e affittuari che facevano quello che volevano: si potevano scegliere anche arredi e ornamenti, ciascuno doveva provvedere in proprio al riscaldamento e all’illuminazione. Sul palco e in platea si svolgevano riunioni mondane, danze e spettacoli leggeri. Si potevano tenere anche chiassose feste. Era, insomma, un centro cittadino aperto, anche se quasi esclusivamente destinato all’aristocrazia e alla borghesia. Ma come era nato il tempio in cui stelle come Gioachino Rossini, Giuseppe Verdi, Giacomo Puccini e Arturo Toscanini, Renata Tebaldi, Enrico Caruso e Maria Callas e più avanti Luciano Pavarotti hanno celebrato il rito della musica? Immortale. La storia del San Carlo è come quella di un “grande animale”. Un grande organismo che è frutto della collaborazione di molti individui. Ma, mentre gli individui muoiono, lui continua nel tempo. Se è un’istituzione umana, a restare vivi nei secoli non sono tanto i “geni” dei vari Niccolini, Verdi o Rossini, ma i loro “memi” (così definiti dall’evoluzionista Richard Dawkins), cioè unità di pensiero (idee o note musicali). Ma un grande organismo si adatta all’ambiente. E così il Teatro San Carlo da istituzione borbonica (che pure aveva battezzato fra gli altri l’esordio della Luisa Miller di Giuseppe Verdi l’ 8 dicembre 1849) diventò un’istituzione culturale italiana prima …europea poi ma soprattutto moderna ed avventuriera. Con l’inizio dell’ottocento si apre un nuovo capitolo nella storia del Teatro. Con il “principe degli impresari” Domenico Barbaja si dà inizio alle stagioni dirette da Rossini e Donizetti. L’ex garzone di trattoria Barbaja, secondo quanto riportato da Giampiero Tintori, “Tenendo banco per il gioco d’azzardo alla Scala di Milano, per una sola stagione, riuscì a spennare così bene i nobili milanesi da ricostruire il Teatro di San Carlo e divenirne il signore assoluto”. Quella magica ristrutturazione del Teatro porta la firma dall’architetto e scenografo Antonio Niccolini (1772-1850). Il caposcuola del Neoclassicismo a Napoli interviene, a più riprese, sull’edificio che progressivamente acquisisce la fisionomia odierna. I lavori, avviati nel dicembre 1809, si concludono due anni dopo. Purtroppo nella notte del 13 febbraio 1816 un incendio devasta l’edificio del Massimo napoletano. Rimangono intatti soltanto i muri perimetrali e il corpo aggiunto. La ricostruzione, compiuta nell’arco di nove mesi, è sempre diretta da Antonio Niccolini, che ripropone a grandi linee la sala del 1812. L’architetto toscano ne conserva, infatti, l’impianto a ferro di cavallo e la configurazione del boccascena, sebbene allargato e ornato nella superficie interna dal bassorilievo raffigurante “Il Tempo e le Ore” che ancora sovrasta il boccascena. Stendhal raccontava, la sera dell’inaugurazione, quel memorabile 12 Gennaio 1817: «Finalmente il gran giorno: il San Carlo apre i battenti. Grande eccitazione, torrenti di folla, sala abbagliante. All’ingresso, scambi di pugni e spintoni. Avevo giurato di non arrabbiarmi, e ci son riuscito. Ma mi hanno strappato le falde dell’abito. Il posto in platea mi è costato 32 carlini (14 franchi) e 5 zecchini un decimo di palco di terz’ordine. La prima impressione è d’esser piovuti nel palazzo di un imperatore orientale. Gli occhi sono abbagliati, l’anima rapita. Niente di più fresco ed imponente insieme, qualità che si trovano così di rado congiunte. […] L’apertura del San Carlo era uno dei grandi scopi del mio viaggio, e, caso unico per me, l’attesa non è stata delusa. […] Non c’è nulla, in tutta Europa, che non dico si avvicini a questo teatro, ma ne dia la più pallida idea. Questa sala, ricostruita in trecento giorni, è come un colpo di Stato. Essa garantisce al re, meglio della legge più perfetta, il favore popolare». Gli occhi di Stendhal erano abbagliati, il cuore rapito dalla magnificenza della nuova sala tirata a lucido tanto brillante che ricordava il palazzo di un sovrano orientale. Un mix di esotica eleganza e aurea magnificenza: le decorazioni erano in argento brunito lucidato con pietra d’agata, con riporti in oro zecchino brunito; i palchi erano in raso azzurro, colore ufficiale della Casa Borbonica, così come il velario e il sipario. Solo il palco reale era rosso “pallido” (così lo definì Stendhal), prima che diventasse rosso fuoco tutta la tappezzeria del teatro per scelta di Ferdinando II. Nella ristrutturazione del 1844, Niccolini scrisse che «il re personalmente […] di tre parati rossi di carta vellutata di Francia […] scelse il paramento del palco di mezzo […] comandò che gli squarci delle porte de’ palchi […] fossero tappezzate della stessa carta […] comandò che il guanciale de’ parapetti de’ palchi fosse coverto in giro di velluto di lana colore scarlatto […]. Così 800 rolli di carta vellutata di Francia per il rivestimento di tutti i palchi da 1 fila inclusa, all’inizio di agosto del 1844 sono alla dogana di Napoli, giungono in Teatro l’11 settembre e vengono messi in opera entro il mese di ottobre».
L’argento non venne scrostato ma vi fu applicato al di sopra l’oro zecchino in foglia e, parzialmente, a Mecca (vernice dorata). Prima del recente restauro del 2009, un frame effettuato sull’ingresso a destra della platea guardando il palcoscenico ha permesso di osservare un putto argenteo perfettamente conservato. Fino al 5 gennaio 2009 quando il San Carlo registra il tutto esaurito, per l’ attesissima riapertura del sipario, dopo 5 mesi di lavori di ristrutturazione, il più antico teatro d’opera in Europa ha echeggiato ancora del suo nome e della sua importanza. Il restauro, ovviamente, non ha trasformato il Teatro. Il San Carlo non è “diverso” da quello che la memoria della Città ricorda: quindi conserva tutt’oggi le sue dorature ed il rosso che da tempo, oramai, gli appartiene. Una storia lunghissima e luminosa quasi impossibile da tracciare. Persone, musiche, luoghi, colori e sapori; epoche e interpretazioni. Registi, scenografi, costumisti così tanti che sicuramente lasceremo qualcuno fuori, seppur importante. Frigerio e Squarciapino, Ljubimov e Borowski, Ronconi e Palli, Costa Gravas e Aulenti, Martone, Vick e Herzog, Brockhaus, De Simone, Job e Wertmuller, Faggioni, Pizzi, Zeffirelli, Ferretti, Pescucci e Tosi. Gli indimenticabili Visconti, Rossellini, Monicelli, Bolognini, Daminai, Ponnelle, Luzzati, Svoboda, De Filippo e Carmelo Bene. I sancarliani Nicoletti e Carosi, Rubertelli e Giustino, Roberto Capucci e Emanuel Ungaro. Il San Carlo da sempre e per sua natura si fa contenitore delle più eterogenee correnti artistiche. La musica al suo interno assume uno spessore e una colorazione diversa; e, invasa dalla contemporaneità dalla ricerca estetica della bellezza e del particolare. Ne derivano esiti inaspettati e dalla carica sorprendente. Creazioni dal forte grado di autonomia capaci di uscire al di fuori del tradizionale spazio teatrale. Opera mirabili e meravigliose in quanto tali e non perché parte di una messa in scena.Vere opere d’arte, da sole, portatrici di un racconto, che viaggiano attraverso le gallerie partenopee e non solo. Sono realtà complesse che partono dal San Carlo, attraversano la città, e finiscono per raggiungere piattaforme culturali internazionale.
Sintesi di tutto questo è il museo del San Carlo, Memus che nasce dalla fusione delle parole “Memoria” e “Musica”. “MeMus”, Museo e Archivio Storico del San Carlo apre i battenti il primo ottobre 2011, un’altra pietra miliare nella titanica impalcatura del Massimo partenopeo. Fu la mostra “Arte all’Opera, Opera ad Arte” la prima ospitata dallo spazio museale posto all’interno del Palazzo Reale, in locali accanto al Teatro e restaurati per l’occasione. 60 opere accompagnate da immagini e video di prestigiosi allestimenti, alcuni dei quali hanno vinto il prestigioso Premio Abbiati, firmati dai importanti artisti contemporanei come Romain Erté, Arnaldo Pomodoro, William Kentridge, Mimmo Palladino. Un luogo della memoria in cui narrare la propria grande tradizione , aprire agli studiosi il proprio archivio, proporre alla città uno spazio stabile in cui incontrare autori, artisti e musicisti. Il teatro lirico più antico d’Europa con la nascita di Memus si è dotato di uno spazio in cui celebrare la sua storia straordinaria, uno spazio museale polifunzionale dotato di moderne tecnologie, aperto al pubblico per diverse tipologie di eventi ed attività. Strutturato su due livelli, ospita al suo interno: un’area espositiva di 300mq; una galleria virtuale di 100mq con sei monitor con programmi sincronizzati, un video stereotipico tridimensionale sul Teatro, tre leggii interattivi touch screen per consultazione e ascolto di titoli musicali; un’archivio-centro di documentazione di 200m con due postazioni per libero accesso al database, quattro Ipad collegati a maxi schermi per accesso al database con nuova applicazione appositamente creata e condivisione dei contenuti su social network, una sala eventi da 50 posti e uno spazio espositivo con oggetti storici del San Carlo, frutto anche di donazioni dei cittadini; un bookshop, che propone, oltre a cataloghi, libri e riviste specializzate, una serie di prodotti realizzati in esclusiva dalle sartorie del Teatro e ispirati a rappresentazioni leggendarie nella storia del San Carlo.
Scuola di Ballo del Teatro San Carlo 1812-2019
Altro fiore all’occhiello del Massimo napoletano. è la Scuola di Ballo, la più antica d’Italia, fondata nel 1812 sotto il regno di Gioacchino Murat. Il compositore e ballerino Pietro Hus- raccontano le cronache-aveva raccolto la sfida lanciata dai governanti francesi e, insieme a Louis Stanislav Henry e Salvatore Taglioni (zio della celebre ballerina Maria), aveva dato vita a corsi per 32 ragazzi: 16 maschi e 16 femmine. Fu subito un grande successo, tanto che l’anno dopo i francesi fondarono un’accademia simile anche alla Scala di Milano. Ma con il ritorno dei Borbone sul trono delle Due Sicilie, la scuola sancarliana prese forma. Un regolamento molto rigido stabiliva che per essere ammessi i ragazzi dovevano avere un’età compresa tra i 7 e i 12 anni e un certificato di polizia che ne attestasse la moralità. Insomma, entrare al Teatro al San Carlo costituiva un titolo di merito e rappresentava un futuro assicurato.
Dopo alterne vicende, nel 1950 la Scuola di Ballo fu affidata a Bianca Gallizia, prima ballerina del Teatro alla Scala, che introdusse lo studio di materie complementari come : repertorio del balletto, danza moderna, danza di carattere, storia e teoria della musica, canto e solfeggio. Con un metodo di studio basato sulle teorie di Enrico Cecchetti – “il maestro dei maestri”- ed aggiornato nel 1967 con l’inserimento della tecnica russa di Agrippina Vaganova, in ventitré anni di attività Bianca Gallizia riuscì a formare un vero e proprio corpo di ballo e a portare in scena ottanta balletti e una settantina di coreografie all’interno di opere liriche. Un bel successo. Nel 1973 lasciò la direzione della scuola a Milly Wanda Clerici, sua stretta collaboratrice per lunghi anni , seguita progressivamente da Tony Ferrante, Zarko Prebil e Giuliana Penzi. Nel 1990 la Scuola di Ballo fu affidata ad Anna Razzi che ne è stata a capo fino al 2015. Romana, di origini partenopee- diplomata alla Scuola del Teatro dell’Opera di Roma. La Razzi, nella sua lunga carriera, è stata prima ballerina e quindi étoile della Scala fino al 1985, ha danzato con Rudolf Nureyev, Paolo Bortoluzzi, Peter Schaufuss, Roland Petit, Patrick Dupond, da Montecarlo a New York e poi San Paolo, Amsterdam, Parigi e Londra. Con grande caparbietà e dedizione per più di vent’ anni ha insegnato ai ragazzi napoletani i segreti dell’arte, a lei va inoltre il merito di aver ripristinato gli spettacoli tenuti dagli allievi della Scuola di Ballo con un repertorio che conta un gran numero di balletti tra cui: “La Silfide”, “La Bayadère”, “Paquita”, “Napoli”, “Raymonda”, “Le Spectre de la rose”, “Les Sylphides” e creazioni originali come “Pinocchio”, “Il Guarracino”, “La favola di Biancaneve”, “Sogno di una notte di mezza estate”. Dal 20 ottobre 2015 è Stéphane Fournial il Direttore della Scuola di Ballo: abilità da manager, competenze nella didattica ed étoile riconosciuta nel mondo. Mix che ha segnato il nuovo e mirabile corso della sancarliana scuola fino ad oggi.
di Teresa Mori
foto ©Luciano Romano