“Fotofinish”: Rezza e Mastrella travolgono il Bellini con un teatro che scuote e disorienta

RECENSIONE – Fino al 6 aprile, il Teatro Bellini di Napoli accoglie Fotofinish, un’opera firmata dalla visionaria coppia Flavia Mastrella e Antonio Rezza, con Rezza stesso in scena accanto a Manolo Muoio.

Non chiamatelo semplicemente spettacolo: è un uragano teatrale, un vortice di parole, gesti e visioni che investe il pubblico, lasciandolo spaesato, stordito, ma inevitabilmente catturato. Qui, il teatro non si limita a raccontare: ti aggredisce, ti sfida, ti spinge a guardare in faccia una realtà frantumata, grottesca, a tratti insostenibile. Dopo vent’anni di assenza dalla città partenopea, Fotofinish si ripresenta come un’evoluzione feroce e sorprendente del linguaggio unico di Rezza, un mix di surrealismo, satira e provocazione che non lascia scampo.
Al centro della scena c’è il tema dell’immagine, evocata dal titolo stesso, quasi un’istantanea che cattura l’essenza dell’umano nel suo caos. Rezza dà vita a un flusso inarrestabile di pensieri spezzati, parole che si rincorrono e si scontrano, costruendo un ritmo che ipnotizza e disorienta. È un linguaggio che sfugge a ogni regola, un torrente di paradossi e giochi verbali che mettono a nudo le contraddizioni della società, dell’identità, del nostro illusorio bisogno di controllo. Si passa dal personale al collettivo in un battito di ciglia: l’individuo si fa specchio di una massa intrappolata in dinamiche sociali e politiche, mentre la comicità nera si intreccia a riflessioni crude sulla vita di oggi, dove persino la sanità o la sicurezza diventano simboli di un’umanità smarrita.
Uno dei momenti più travolgenti è il monologo sulle suore e la sanità, un’esplosione di nonsense e risate che nasconde un’amarezza profonda. Rezza dipinge un ospedale surreale, un “policlinico Umberto I” che si sposta, pronto a invadere la casa del malato con un primario mascherato e un esercito di suore armate di rosari, Pater Noster e acqua santa – ma mai di medicine. “Tu devi solo star male, al resto pensiamo noi”, sembra dire il sistema, mentre le suore si affannano in un rituale grottesco che confonde conforto e caos. Tra un “Gloria al Padre” e uno spruzzo di acqua ragia, la satira si fa tagliente: l’ospedale, emblema di cura, si trasforma in un carrozzone assurdo, incapace di rispondere ai bisogni reali. È una denuncia feroce, mascherata da risate, di una sanità che si perde in facciate di efficienza e simboli vuoti, lontana dall’uomo che dovrebbe salvare.
Rezza sul palco è un fenomeno: il suo corpo è un’arma scenica, un’esplosione di gesti esagerati e ritmi forsennati che trascinano lo spettatore in una danza tra l’assurdo e il tragico. Le sue parole tagliano come lame, mescolando politica, religione e quotidianità in un groviglio che riflette il nonsenso del nostro tempo. La scenografia di Flavia Mastrella amplifica tutto: cinque totem bianchi dominano lo spazio, squarciati da lampi di colore – rosso, verde, blu – mentre due sfere bianche rotolano ai lati, come frammenti di un mondo mentale in perenne movimento. È un microcosmo visivo che incornicia il caos, trasformando la scena in un quadro vivo e pulsante.
Fotofinish non è solo teatro, è un’esperienza che ti prende a schiaffi e ti costringe a ridere della tua stessa impotenza. Tra le righe, emerge una riflessione sulla violenza e la guerra, mai banale, che rende il pubblico parte di un gioco crudele e necessario. Dopo due decenni, il ritorno di quest’opera a Napoli è un richiamo potente: un invito a non smettere di interrogarsi, a non abbassare la guardia di fronte a un mondo che troppo spesso ci soffoca con le sue ipocrisie. È teatro che non si dimentica, che ti resta dentro come un graffio, un ricordo scomodo e irresistibile.

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