“Chi ha paura di Virginia Woolf?” al Teatro Bellini

RECENSIONE – Fino al 13 febbraio sarà in replica al Teatro Bellini di Napoli il conturbante spettacolo “Chi ha paura di Virginia Woolf?”, storia di un amore intenso e disperato. Il pubblico assiste a quella che sembra una notte di alcool e sesso ma si rivela invece un gioco al massacro, condotto da una coppia in crisi col fine di distruggere anche l’altra coppia più giovane. Le ipocrisie, i compromessi e le illusioni sono scalpellinati e scardinati sul vuoto che hanno dentro e si fa sentire.

Opera del drammaturgo statunitense Edward Albee che ha debuttato a Broadway nel 1962, conquistando sin da subito il pubblico, al punto da restare in scena per 664 repliche. Da allora è stato pluri-rappresentato in tutto il mondo diventando un classico del teatro contemporaneo, oltre che un film diretto da Mike Nichols e interpretato da Richard Burton ed Elizabeth Taylor (la quale vince l’Oscar nel 1967 come miglior attrice protagonista). Fu rappresentato per la prima volta in Italia nel 1963, al Festival Internazionale di Teatro di Prosa a Venezia, regia firmata da Franco Zeffirelli con due grandi interpreti, Enrico Maria Salerno e Sarah Ferrati. In scena al Teatro Bellini troveremo il nuovo spettacolo di Antonio Latella, costruito in simbiosi creativa con la drammaturga Linda Dalisi a partire dalla traduzione di Monica Capuani, e prodotto dal Teatro Stabile dell’Umbria (contributo speciale della Fondazione Brunello e Federica Cucinelli).

La domanda è: perché ritroviamo il nome di una delle figure intellettuali più importanti del Novecento nel titolo di Albee? Durante la pièce viene cantata dai protagonisti la canzoncina che fa il verso alla melodia per bambini “Chi ha paura del lupo cattivo?” (in inglese Wolf di “lupo” diventa, per un vezzo intellettualistico, “Virginia Woolf”). L’animo narrativo della Woolf pervade l’opera, soprattutto nell’ispirazione della storia che vede protagonista una coppia sposata in crisi. «Ogni volta che entra la morte, bisogna inventare, mentire, ricostruire. La morte la puoi vincere solo con l’invenzione» scriveva Virginia Woolf e Albee riprende la frase come faro per la sua rotta. Altro chiaro riferimento all’autrice è la maschera di coniglio che giunge in scena frammentando l’aria, sicuro riferimento a “Lappin e Lapinova” racconto della Woolf in cui due giovani dell’alta borghesia londinesi si sposano e, per sopravvivere all’idea di matrimonio, lei inventa una dimensione fantastica in cui loro sono due conigli in un mondo alternativo, con loro linguaggi e abitudini, che però si scontra con la realtà quotidiana in cui ci si ritrova estranei e incapaci di comunicare.

Questa storia vuole abbattere le colonne del sogno americano ed è una decisa critica alle convenzioni e le ipocrisie del ceto borghese, che vedono le due coppie di età differenti incontrarsi per cena e presentarsi. Martha, figlia del rettore del College, e suo marito George (professore di storia) invitano a cena, il collega di lui, Nick (professore di biologia ventottenne), con sua moglie Honey. Le tre ore di spettacolo scivolano via, il pubblico è condotto a ritmo avvincente in un fitto labirinto di illusioni, in questo sottile e crudele gioco al massacro, che coinvolge anche chi non vuole giocare o chi vuole andarsene ed invece resta. Un gioco di ruolo che va avanti da chissà quanto tempo e che vuole smontare ogni labile compromesso, svelando frustrazioni ed insofferenza, con l’obiettivo principale per la serata di “sgamare gli ospiti” distruggendo anche la loro unione. Un gioco che in apparenza è condotto da George ma si comprende essere messo sul tavolo da Martha («Io non la voglio la felicità. Deve essere punito perché ha deciso di amarmi. Una notte perderò la misura e gli spezzerò la schiena»).

Le parole, come anche sottolinea Latella nelle note di regia, diventano «un’arma efferata per attaccare e ridurre a brandelli». I personaggi bevono di continuo alcool inesistente, sbiascicano nel parlare e sbandano nel camminare, e tra vorticose risate sputano fuori parole violente. Il ritmo è frenetico e non abbandona mai il pubblico che nell’intervallo resta fermo a riflettere, come i protagonisti che si placano sulla scena al suono di alcuni campanelli (curati da Franco Visioli) che insinuano pace un po’ in tutti per qualche attimo. Il loro rapporto è una palude e nella battaglia si sentono vivi. Straordinaria la Martha di Sonia Bergamasco, impeccabile il George di Vinicio Marchioni e interessanti i due giovani Ludovico Fededegni (Nick) e Paola Giannini (Honey). Ognuno di loro si protegge come può, rannicchiandosi sul pavimento, cantando e suonando al pianoforte, leggendo un libro o ballando. Il gioco non ha regole, né limiti, è finanche possibile inventare un figlio ed ucciderlo. George in un punto afferma «Devo trovare un modo per farti veramente male» e alla fine si fanno male tutti. Tutti precipitano nel vuoto che hanno dentro. Chi non ha paura dei propri fantasmi?

La scena (firmata da Annelisa Zaccheria) si presenta come un elegante salotto per niente ospitale. Non c’è un divano o sedie per gli ospiti, solo una poltrona per George, le pareti sono di un verde a tratti psichedelico (eloquente il disegno luci di Simone De Angelis), centrale si trova un pianoforte con il quale interagiscono tutti a loro modo (c’è chi lo sfascia), calamita d’attenzione è il mobile bar, diversivo intermittente una cassa per la musica. Ognuno ha il suo percorso in questo labirinto, tra gli oggetti e i pensieri. Impossibile non uscirne feriti. L’amore di George e Martha è intriso di malattia, prigionieri come sono di una convenzione sociale, che li ha suggellati in una convivenza infelice ma, per loro, essenziale.