Quella di Pulcinella è la maschera senza dubbio più rappresentativa del Teatro napoletano. Da Totò a Massimo Troisi, passando per Eduardo, tutti i più grandi attori nati all’ombra del Vesuvio hanno indossato i suoi panni. Ma ce n’è uno che può fregiarsi, a giusta ragione, del titolo di ‘Re dei Pulcinella’: Antonio Petito.

Antonio Petito era figlio d’arte di Salvatore e Giuseppina D’Errico

Nato a Napoli il 22 giugno 1822, era a sua volta figlio di un altro celebre Pulcinella, Salvatore Petito, e di Giuseppina D’Errico, conosciuta da tutti come Donna Peppa. Che prima gestiva un teatrino dei pupi e, dopo le nozze, divenne l’impresaria della compagnia della famiglia Petito. I due ebbero sette figli: Gaetano, Davide, Pasquale, Antonio, Michela, Adelaide e Rosa.

Il ritratto di Antonio Petito
Il ritratto di Antonio Petito

Tra questi, spiccava Antonio, soprannominato in famiglia Totonno ‘o pazzo per la sua estrema vitalità. Gli esordi sul palcoscenivo avvengono all’età di 7 anni. Si formò, soprattutto nel Silfide, il teatrino della madre, alla Marina del Carminema. Ma il passaggio di consegne ufficiale avviene nel 1853, quando il padre gli cede la maschera e il camice bianco di Pulcinella nel corso di una rappresentazione al Teatro San Carlino di Napoli. Nella sua autobiografia, ritrovata da Salvatore Di Giacomo, Petito racconta, in un italiano abbastanza sgrammaticato che “fu talmente agradito dal pubblico che in ogni comedia che si scriveva facevano agire il petito e anche a S. Ferdinando lo portavano per farlo al 1834 recitare e agire nelle pantomime alle età di 12 anni”.

La nuova visione di Pulcinella con il volto di Antonio Petito

Proprio come l’illustre genitore amava la la Commedia dell’Arte Cinquecentesca. Che riadattò ai suoi tempi e con la sua proverbiale mimica, che lo contraddistinse sempre. Ma non solo, infatti, oltre al ballo, alle movenze e al linguaggio, diede alla figura di Pulcinella, ormai lontano dall’immagine del vile servitore, uno spessore psicologico molto più alto. E i temi sociali venivano spesso trattati nelle sue opere. Come ad esempio accade in Tre banche a ‘o trecento pe’ mille o All’unione delle fabbriche. Pulcinella diviene più furbo, dinamico, senza mai tralasciare gli aspetti malinconici derivanti spesso da ciò che accadeva intorno a lui. In una Napoli che nell’Ottocento, combattendo tra le sue miserie quotidiane, era decisamente diversa da quella del passato.

La maschera di Pulcinella indossata da Antonio Petito, custodita presso la Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele III
La maschera di Pulcinella indossata da Antonio Petito, custodita presso la Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele III

Nonostante il suo essere semianalfabeta, scrisse circa novanta testi. Comprendendo, forse tra i primi, l’importanza del copione. Tanto che spesso, dopo aver ideato la trama, si rivolgeva ai letterati dell’epoca per far nascere l’opera su carta. Tra questi revisori, il più ricorrente e ricercato fu Giacomo Marulli. Famose le sue parodie, che richiamavano l’attenzione non solo del popolo, ma anche degli aristocratici. Curiosi di assistervi dopo aver visto la versione originale del testo.

Nel 1869 l’incontro tra Antonio Petito e Scarpetta

Nel 1869, entrò a far parte della compagnia del San Carlino anche Eduardo Scarpetta. Allievo in grado di superare poi il maestro. Definito affettuosamente “proponquanquero de li comici napolitane” (Pozzo, 2009, p. 50).

Proprio dietro le quinte del teatro San Carlino, dove aveva ricevuto i panni di Pulcinella per la prima volta, Petito ebbe, la sera del 24 marzo 1876, l’attacco cardiaco che gli fu fatale. Recitava il terzo atto de La dama bianca di Giacomo Marulli.

Il ricordo di quei momenti nelle parole di Salvatore Di Giacono. “Quale scena! L’infelice fu trasportato, dal corridoio, sul palcoscenico e qui adagiato sopra un materasso. Fra tanto un attore usciva ad annunziare agli spettatori la triste novella. Un silenzio profondo seguì alle poche proteste di coloro che non credevano ancora all’avvenimento […]. Erano attorno al Petito i suoi compagni […]. E fu uno scoppio di singhiozzi, di urli, d’apostrofi, un pieno di commozione, che pareva il finale di un dramma […]. La notizia si sparse per Napoli in un baleno. Spariva il benemerito dell’allegrezza, il riso moriva”.