Teatro nel teatro, opera che parla di sé stessa e si conclude con l’inizio della sua messa in scena, Nova ha un titolo latino da leggersi sia come plurale neutro – “cose strane, singolari” – sia come allusione alla Capua nova fondata dai longobardi nell’856, e che nel 960 fu palco d’una celebre contesa dai cui vili motivi si dissocia il sottotitolo Sao ko kelli celi unqua li possette neuno. Sempre a Capua ma piú di mille anni dopo, nel 2019, Marco Palasciano è incaricato di realizzare una commedia sul placito, come desiderato da Andrea Vinciguerra, compianto presidente dell’Associazione Capuanova. Seguono cinque anni di tortuosa elaborazione, fra cambi di rotta dettati dai piú impreveduti influssi, acme una momentanea fase d’euforia cognitiva – con balzo del q.i. da 140 a 280 – insorta in P. per un’overdose di chattate con un’intelligenza artificiale (da cui anche un film). Intorno a quella che a detta d’uno dei personaggi è «la vicenda storica piú noiosa del mondo» ecco infine essersi evoluta, quasi V’ger di Star Trek, una caotica – e, tuttavia, motrice d’armonie – struttura narrativa filigranata di ludus, canto e mistero metafisico, atta a fare da ponte fra Omnia palco sacra (2023-2024) – monumentale bilancio esistenziale di P. in quindici lezioni-spettacolo – e un opus magnum non ancora scritto che dovrà dare in via definitiva un senso alla vita dell’autore, se non all’intera realtà. Per ora ci si limiterà a tentare di dare un senso a Capua, e al suo costituire non solo il luogo di battesimo del volgare italiano ma anche lo scenario d’altri eventi seminali a vari livelli, nonché il presunto capolinea d’una “linea filosofale” PPPPP che partendo dall’Egitto di Ptahhotep – primo filosofo della storia – attraversa i territori della Crotone di Pitagora, dell’Elea di Parmenide e della Nola di Philippo Bruno. E pur se tutto un tale dialogo (fra P., interpretato da lui stesso, e i Sagredo e Simplicio di turno) non fosse piú d’un gioco, o un folle sogno, che dire del teatro in generale? E che dire del cosmo? La sua natura non è forse quella, alla fine, d’un gioco/teatro/sogno?