“Fat pig”: Neil LaBute e la precarietà dei rapporti sentimentali in scena al Ridotto del Mercadante

Dopo “Autobhan”, la stagione del Ridotto del Mercadante continua con una seconda drammaturgia di Neil LaBute diretta da Alfonso Postiglione: “Fat Pig”, in scena fino al 9 dicembre. La pièce, presentata per la prima volta in Italia nella traduzione di Marcello Cotugno e Gianluca Ficca, è interpretata da Daria D’Antonio, Dario Rea, Anna Bocchino e Emanuele D’Errico.

In un ristorante, il giovane impiegato Tom (Dario Rea) incontra per la prima volta Helen (Daria D’Antonio), esuberante bibliotecaria dall’eloquio amabile e dalla curiosa passione per i film di guerra. Sembrerebbe un semplice, tenero ed impacciato primo incontro che confluirà presto in una relazione sentimentale, se non fosse per un particolare non da poco: Helen è “grassa”. Non è “robusta”, né “obesa” – come biasimerebbe il buonismo d’etichetta tanto caro ai nostri tempi – è un “maiale grasso”, volendosi riferire al titolo della drammaturgia. Nonostante ciò, il fisico di Helen non sembra intimorire Tom che riesce a concordare un nuovo incontro con l’entusiasmante bibliotecaria. Ha così inizio la loro relazione: Helen si lascia coinvolgere da una passione mai vissuta in precedenza, mentre Tom confida di essere finalmente riuscito a trovare una donna in grado di offrirgli quell’autenticità mai realmente vissuta nelle precedenti relazioni.

Due colleghi di Tom, il giovane e sfacciato Carter (Emanuele D’Errico) e la bella Jeannie (Anna Bocchino), con il quale Tom ha avuto una breve relazione finita da poco, scoprono la relazione con Helen e lo rimproverano con discorsi costituiti da un tripudio di aggettivi ineleganti ad indirizzo della nuova fidanzata, rincarando la dose con l’aggiunta di improbabili osservazioni psicologiche a proposito delle recondite ragioni che hanno spinto un ragazzo così piacente ad impegnarsi sentimentalmente con una donna grassa. I giudizi dei colleghi, uniti, col passare dei giorni, al sospetto che l’obesità di Helen possa rappresentare un serio limite all’identificazione sociale e professionale raggiunta da Tom, lo condurranno alla perentoria certezza di non essere in grado di proseguire la relazione.

“Fat pig” mette in scena un sogno infranto, con il suo carico di afflizioni, umiliazioni, errori e insicurezze. Soprattutto, la drammaturgia di LaBute offre un amaro rendiconto del rapporto tormentato dell’individuo contemporaneo con la propria sensibilità estetica, costituita, per lo più, dalle labili e precarie concezioni del “gradevole” e del “bello”. Giudizi resi ancor più inconsistenti poiché depravati dall’asfissiante camicia di forza sociale, in grado di schiacciare il genuino sentimento di un individuo in nome di un vuota e anonima identificazione sociale, dalla raffigurazione sicuramente sempre più “efficiente di sé”, ma che proprio per questo rischia di non poter offrire nient’altro al di là di una rappresentazione impersonale e sterile d’ardore alcuno.

Malgrado l’avvincente pretesa narrativa della pièce, il risultato finale di tale rendiconto appare forse troppo semplice, poiché mette in scena una storia il cui drammatico epilogo è percepibile sin dalla prima scena. La narrazione sembra limitata nelle sue pretese anche per via del modesto espediente scenico utilizzato per rappresentare l’obesità di Helen: un grosso pallone gonfiabile dal colore rosa pelle – simile ad una pancia grassa -, che di volta in volta Tom, Carter e Jeannie si ritrovano ad enfiare a suggello di una metafora solo superficialmente rivelativa del modo in cui i “presunti” giudizi estetici dominanti sono in grado di iperbolizzare un’obesità già palese.