Intervista a Gigi Savoia: “Quarant’anni di passione per la cultura”

Quarant’anni di carriera, per un attore che ha nel suo DNA la poliedricità e la molteplicità nelle arti figurative.

Inizia infatti con la musica, per poi passare anche al calcio, e infine per dare sfogo naturale al fuoco sacro dell’arte teatrale. Gigi Savoia ha questo grande dono, quello di essere un attore per tutte le stagioni e di tutti i generi. Nasce come attore di tradizione eduardiana, ma ha in se tutti gli stilemi e il coraggio di interpretare la tradizione con grande modernità. Savoia, insomma, sarebbe capace di rendere alternativo, un testo classico, e uno spettacolo di tradizione classica, in un teatro alternativo e di ricerca. Per lui il palcoscenico non ha segreti. Sembra essere nato per performance ed esibizioni. Eduardo e il suo teatro epico, sono l’esordio nella sua carriera, ma i nomi che frequenta sono da brividi. L’aver suonato con elementi come Enzo Avitabile e Pino Daniele, in una epopea del rock nostrano, lo ha forgiato nella sensibilità musicale, che è, in fondo, il prodromo per quella affabulatrice del teatro. Gli esordi sono nei mitici Anni ‘70, dove forse i fermenti culturali sono al culmine e di grande spessore. «Se dovessi dire la mia impressione sull’argomento passione – esordisce l’attore – devo ammettere che le occasioni sono diventate molto poche, rispetto all’epoca dei miei esordi. Però l’intenzione, la passione, il fervore che riscontro nei giovani di oggi,è sempre la stessa. Anzi vedo che è aumentato il numero di ragazzi che aspirano a questa arte. Purtroppo sono diminuite le occasioni, perchè al contempo sono quasi spariti del tutto, i mecenati per questo mestiere, ma sono aumentati i “commercianti”. Si fa soprattutto commercio con questo mestiere. C’è solo tanto spazio a quelli che hanno come obiettivo solo la risata a teatro. Prima c’erano degli spazi deputati al teatro classico, ora un po’ tutti i teatri si riferiscono solo ad un prodotto di larga produzione, magari molto commerciale e molto divertente, ma secondo me poco educativo».

Lei naturalmente si riferisce all’ imperversare di programmi televisivi scadenti?

«Certo, tutto è successo e ingrandito, quando c’è stato questo imperversare di una ondata esagerata di piccole realtà televisive di carattere commerciale. Con annesso cabaret comico, a cui le reti nazionali si sono dovute adeguare, facendo diventare popolarissimo quel genere. In questo modo è molto difficile dare soddisfazione ai ragazzi che vogliono intraprendere una carriera su un altro binario. Soprattutto dare spazio alla primaria funzione del teatro che deve essere educativo, stimolante, emozionante ed emozionale». Certo il cabaret di una volta, aveva padri più nobili.

«Io non voglio e non metto in discussione il cabaret di oggi, ma se poi si deve monopolizzare tutto, anche quello che non è cabaret, non sono d’accordo. Anche lo stesso teatro si è diretto verso questo settore comico, e non viceversa. Il cabaret andrebbe bene come una delle forme teatrali. Però non bisognerebbe lasciare poco spazio alle altre forme di espressione. La commedia ha, nel suo interno, una personale comicità. Infatti tanto teatro di prosa fa ridere e di gusto, ma mantenendo il rigore e le leggi della prosa, che spesso, sono disattese”.

Secondo lei servono le scuole teatrali, per la formazione di un giovane?

«Le scuole servono, ma se sono sottoforma di Accademie, come quella di Genova, e tutte quelle che sono all’interno di teatri nazionali. Anche quella di Napoli, quella del Mercadante, è un’ottima accademia. Sulle altre non voglio dire che mi danno qualche perplessità, sono anche utili, ma alla fine ci vuole altro, ci vuole la pratica. Infatti penso che è la carriera che forma, non tanto la scuola. La scuola ti può solo aiutare a capire se hai del talento o meno, ma quello che ti forma davvero è la pratica sul palcoscenico. Dopo di che ogni attore, deve essere capace di costruire la propria carriera. E qui mi preoccupo. Perchè quando ho cominciato io, 40 anni fa, ho avuto la possibilità di scegliere e di capire, restando sempre nella mia città, perchè allora c’erano fucìne teatrali di rilievo».

I suoi esordi sono stati all’insegna di tante sfaccettature, dalla musica, al calcio e al teatro. Ma se non avesse fatto l’attore,cosa le sarebbe piaciuto fare?

«Paradossalmente se non avessi fatto l’attore, avrei fatto il medico. Ero iscritto all’Università di Medicina, avevo una specie di attitudine a quella professione. Però la mia debolezza interna mi ha fatto desistere. Sono poi partito per fare il militare e in questo frangente ho beccato il teatro. Già suonavo e conciliavo bene la musica con la medicina. Poi in verità, quando vedevo che il malato, può anche lasciarci e quindi far soffrire anche lo stesso personale medico, mi sono un po’ intristito e lì è venuto a distrami il verme del teatro. Così si è decisa la mia vita».

La musica è vita anche nel teatro? Può esserci un matrimonio tra scena e note?

«Innanzitutto devo dire che la musica mi manca da morire. Io dico che sono favorevole, perché è molto importante nell’economia del teatro. L’ho riscontrato molte volte e nelle pièce teatrali di grande livello qualche contrappunto è di grande atmosfera. Ho fatto un testo di Shakespeare a Verona, con la regia di Giancarlo Sepe, e le opere di questo regista, sono sempre inframmezzate da spunti musicali e di momenti musicali che arricchiscono la messa in scena. Se pensiamo che anche alcune opere di tradizione, come la scarpettiana, hanno questa caratteristica. A me è capitato di farla con Luca De Filippo. Infatti alcuni intervalli musicali erano scritti da Nicola Piovani, mitico premio Oscar. Il teatro e la musica, dovrebbero essere sempre in simbiosi».

Ci parla della sua esperienza televisiva all’estero, in serial tv?

«La serie che ho fatto all’estero, “La Famiglia”, ha ribadito la precedente esperienza cinematografica, sempre in altra nazione. Ho fatto un film tedesco, “Solino”, diretto da un turco. Oggi va per la maggiore, perché Fatih Akin è diventato un grande regista. Sia l’esperienza in Germania, sia questa della serie ad Amsterdam, mi hanno fatto comprendere come questo nostro mestiere, all’estero, è più gratificante e più considerato. L’attore viene trattato da attore, e quindi più selezionato. Anche lì occorre passare una serie di step, dopo di che, se ti considerano meritevole, sei trattato come un creativo, come un vero artista. Come una persona che ha bisogno dei suoi momenti di concentrazione, per arrivare ad una interpretazione. Lo si mette a suo agio e lo si tratta economicamente bene. Lo si paga con scadenze precise, cosa che in Italia ormai è diventata una cosa risibile. Qui siamo ancora considerati con approssimazione».

Ma il cinema, nella sua carriera, è entrato poco?

“No, non è che entrato poco. Purtroppo diciamo che se dedichi una vita al teatro, è difficile che il cinema sia pregnante. Diciamo che te lo devi fare da solo, te lo scrivi, te lo fanno fare, e dopo se va bene, te ne fanno fare altri. Vedi Salemme e tanti come lui. Purtroppo il cinema ha bisogno dei suoi tempi. Il cinema spesso slitta con i tempi e quindi ti può spiazzare. A me è capitato diverse volte di perdere occasioni. è capitato di superare provini cinematografici, ma nel momento in cui partivano con il set, io ero impegnato in tournè teatrali. Io ho impegnato 30 anni della mia vita in tournée che partivano a maggio e finivano a settembre, capirà che non c’era lo spazio necessario per incastrare il cinema. Ne ho fatti di film che mi hanno dato molta soddisfazione, con registi di valore come Nanni Loy, Fatih Akin, Stefano Incerti, Sorrentino ecc. Insomma ho fatto poco cinema, ma buono. Ora ne dovrò farne uno, per la regia di Marcello Sannino, dal titolo “Rosa, preta e stella”.

L’esperienza con il grande Eduardo, quale insegnamento le ha lasciato?

“La cosa maggiore è lo studio e l’esasperazione della tecnica. Per lui era tutto. Sia quella vocale che l’analisi logica di quello che si va ad interpretare. Per me è stato fondamentale. Lui ci faceva capire che la sua finta naturalezza interpretativa, era il risultato di un grande studio della tecnica. Amava dire: “Dovete essere soddisfatti, perchè mentre state facendo un personaggio, dovete sentirne la fatica”. Insomma secondo il suo insegnamento, si deve sempre dominare la scena, dominare quello che si sta dicendo e il proprio personaggio. Lui insegnava il grande rigore tecnico, cosa che oggi non vedo. Oggi basta avere un fisico particolare, o una faccia comica e ti chiamano attore”.

Degli autori che sono stati dei punti cardini per il teatro intero?

“ Sicuramente importantissimi autori come Shakespeare, che è imprescindibile, gli autori Greci, anche loro determinanti. E poi tutto un teatro Cecoviano, e per grazia di Dio anche Pirandelliano ed Eduardiano. Sono stati importanti per tutto il teatro”.

Ci dice i suoi prossimi lavori a cinema e in teatro?

“ Oltre al film che le ho già citato, il teatro mi prenderà al cento per cento. Quello non può mancare. C’è innanzitutto un lavoro di Maurice Ennequin, dal titolo “La Presidentessa”, che è molto comico e divertente. Poi bontà sua, il teatro nazionale, nella prossima stagione, produrrà uno spettacolo che mi vede protagonista. E’ un lavoro di tradizione, un testo di Scarpetta, per la regia di Massimo Luconi, dal titolo “’O tuono ‘e marzo”. Con me in scena c’è Tonino Taiuti, Anita Bartolucci ecc. Se poi oltre al film “Rosa, preta e stella” si infila qualche altro progetto,come quello che è in programma, ma di cui non posso ancora dire nulla, allora arricchiremo il curriculum cinematografico. Continuo i miei incontri con attori già formati ma che vogliono fare un work shop con me mensilmente. E’ una cosa che mi gratifica, perchè io insegnante, ho bisongo di confrontarmi con i giovani, c’è bisogno di uno scambio reciproco”.

di Gianni Mattioli

foto copertina © Sahmetpolat