Luna-57 è il nome di una missione. Meglio, della preparazione ad una missione.
O, forse, più precisamente, del tentativo di costruire un modulo di sopravvivenza. Per chi parte, certo, ma soprattutto per chi resta, al buio di una stanza che non viene mai aperta.
Come fosse un contemporaneo Libro dei Morti, una ragazza hikikomori mette a punto una serie di istruzioni destinate al padre in procinto di partire per una missione, appunto, che pare essere pericolosissima: esercizi propedeutici ad un viaggio di sola andata, in cui prende voce la frattura di un’imminente separazione.
Immersioni visive in territori deserti, improbabili coreografie propiziatorie, movimenti inconsueti, esercizi dai nomi arcaici, suoni da altre dimensioni, costituiscono parti di un allenamento per restare in vita su un pianeta sconosciuto e al contempo per sopravvivere senza qualcuno.
Nello spazio metaforico di un altrove in cui ricominciare, si dispiega un dialogo a senso unico che assume le sembianze di un gioco di specchi, in cui una ragazza, nella solitudine della propria stanza, si munisce di un casco da astronauta e sussurra ad una telecamera “Ce la puoi fare papà”: un invito che è quasi una maledizione, un incoraggiamento che precipita in un confronto con l’ambivalenza di un rapporto fatto di ricordi, di speranze, di rancori, di non detti.
E dal dentro di una segregazione autoinflitta, con continue incursioni di un fuori sempre e comunque presente, la missione LUNA-57 diventa la risposta all’incombere di molti pericoli: un razzo che sta per partire, un mondo con cui non si vuol fare i conti, un tempo che si assottiglia fino a diventare l’istante che precede un addio.