È in un luogo enigmatico e oscuro, “dove nulla è se non ciò che non è”, che sarà ambientato il nostro Macbeth. Una valle del perturbante, un portentoso labirinto della mente, fatto di visioni improvvise e soglie da oltrepassare. Sono diversi infatti i temi (e gli interrogativi ) che sottendono la nostra esplorazione del testo shakespeariano.
Innanzitutto, Macbeth è la storia di uno sguardo, uno sguardo che vede troppo perché si è nutrito della “radice della follia”.
La sua mente poderosa racchiude – come in un eterno corto circuito – passato, presente e futuro ed è questa stessa capacità di contenere e accelerare il tempo, di vedere e allucinare il futuro, varcando i confini del possibile e dell’impossibile che lo porterà, alla fine, alla sua stessa autodistruzione.
In questo luogo metafisico (che tanto ricorda la “Zona” di Andrej Tarkovskij), abitato da proiezioni fantasmatiche, dove il tempo stesso può essere piegato e i desideri più sfrenati sembrano potersi avverare, è come se il protagonista compisse un percorso a ritroso nella propria vita. All’inizio del testo lo incontriamo all’apice della sua virilità – il guerriero più rispettato della Scozia, “prediletto del Valore” – e lentamente lo vedremo tornare bambino. Un bambino sperduto, con i capelli bianchi.
Macbeth infatti è anche la storia di un trauma antico che attiene all’infanzia e che sembrerebbe avere origini nell’impossibilità dei due protagonisti (che Freud definiva parti complementari e inscindibili della stessa psiche) di poter procreare. Non a caso, la parabola di Macbeth potrebbe essere letta come un disperato e sanguinario tentativo di sublimare questa impossibilità andando a eliminare, occupandone il posto, tutti i padri (e i figli) che sembrano frapporsi lungo il suo cammino. Macbeth è il lungo viaggio di un uomo alle radici del male. O meglio ancora, il progressivo inabissamento di una coscienza nel vasto e inesplorato territorio del rimosso. Una lunga giornata che procede inesorabilmente verso la notte, una notte in cui tutto va storto, in cui l’ordine delle cose è rovesciato e la natura stessa viene ferita e violentata. È a metà del testo infatti che troviamo un viatico al nostro progetto. Dopo la morte di Duncan, che non è solo un attentato alle leggi morali, politiche e dell’ospitalità, ma una vera e propria lacerazione del tessuto divino dell’umano, sarà Macduff ad ammonirci: “Affacciatevi alla camera, e una nuova Gorgone vi accecherà. Non mi chiedete di parlare.” È come se da questo punto in poi, un punto di non ritorno, il protagonista, attraverso la sua potenza distruttiva e visionaria al contempo, ci accompagnasse in una discesa agli inferi o lungo una galleria di immagini ( e azioni ) sempre più violente ed efferate che non dovrebbero mai essere evocate né venire alla luce. Una galleria dell’impensabile, dell’indicibile dunque, in cui entriamo a nostro rischio e pericolo.
Jacopo Gassmann