Una storia dai contorni oscuri e tormentati, dalle conseguenze violentemente drammatiche e non risanabili.
Per quello che Giuseppe Gulotta ha vissuto, protagonista suo malgrado di questo itinerario, ma anche per le altre varie vittime della vicenda, affrontare questi avvenimenti sulle tavole di un palcoscenico pone di fronte a una grande responsabilità.
La responsabilità, certo, di non tacere l’incredibile vicenda legale, la lunghissima serie di omissioni, errori, leggerezze, falsificazioni, palesi violazioni della legge che oggi ci fanno definire questa vicenda come una vera e propria frode giudiziaria.
La responsabilità, naturalmente, di non dimenticare il contesto e gli interessi in campo che generano il dramma.
Ma principalmente la responsabilità di declinare la drammaturgia, attraverso la vicenda umana di Giuseppe (ma anche di Salvatore e Carmine, le due vittime della strage, o di Giovanni, Vincenzo e Gaetano, gli altri capri espiatori designati) rendendo giustizia alla sua dimensione personale, quella di una vita quasi interamente sottratta per ragioni inconfessabili.
Provare a innescare un processo di identificazione, pur senza aver attraversato quello che lui ha attraversato, senza aver sofferto quello che lui ha sofferto con un incredibile senso di dignità e consapevolezza.
Provare a compiere questo corto circuito narrativo riuscendo a sottrarsi a qualsiasi intento retorico.
La voce di Giuseppe ci attira in questo vortice raccontando, come trovasse per la prima volta qualcuno disposto ad ascoltare, la gioventù interrotta, l’arresto, le torture, i colpevoli silenzi, i pregiudizi, ma anche l’irriducibile cocciuta speranza in una restituzione finale della propria umile e alta identità.
Lo fa alternandosi a voci secondarie, ma necessarie: un vicequestore illuminato schiacciato anche lui dall’ingranaggio, l’ufficiale dell’Arma regista occulto delle torture (un Kurz rovesciato, lucido e per nulla tormentato), la moglie Michela, i genitori.
Ogni voce, ogni episodio del vortice, trova il proprio luogo all’interno della scenografia, leggera e opprimente a un tempo, di Aldo Zucco, capace di diventare multiforme nei suoi pochi, ma importanti segni.
Le musiche originali di Luigi Polimeni, contrappunto ritmico ed emozionale al racconto, diventano esse stesse drammaturgia, sostenendolo scorrere inesorabile della storia in tutte le sue partiture emotive.