RECENSIONE – Il Teatro Bellini presenta, in chiusura di Cartellone, “Morte Accidentale di un Anarchico” (in scena dal 13 maggio fino al 1° giugno, in diciotto repliche) con la regia firmata da Antonio Latella e la drammaturgia di Federico Bellini. Si tratta di uno dei testi più noti della coppia Dario Fo e Franca Rame e, si puo’ dire, anche il più censurato.
Per questo spettacolo, il Premio Nobel Dario Fo subì numerose minacce, ottanta denunce e quaranta processi. Per la narrazione si basò su documenti autentici: inchieste giornalistiche, verbali ed interrogatori. Debuttò la prima volta nel dicembre 1970 e il titolo fa riferimento alla morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli. Quest’ultima avvenuta nel palazzo della questura di Milano, cadendo al suolo dalla finestra del quarto piano durante un interrogatorio, nel 1969. Pochi giorni prima c’era stata, quella che fu definita, “la strage di Piazza Fontana”, per la quale era ritenuto colpevole. In quell’attentato terroristico, avvenuto nella sede della Banca dell’Agricoltura, morirono diciassette persone e ottantotto rimasero ferite. La prima versione, data dal questore Marcello Guida nella conferenza stampa convocata subito poco dopo la morte di Pinelli, sarà quella del suicidio, ma a questa versione crederanno in pochi. «Quella sera a Milano era caldo. Ma che caldo che faceva. Brigadiere apra un po’ la finestra. E Pinelli cascò giù», così recita la Ballata dell’anarchico Pinelli scritta la sera stessa dei funerali.
Protagonista in questo spettacolo è il matto, interpretato dall’istrionico Daniele Russo che in questo spettacolo si cimenta in un personaggio diverso rispetto a quelli precedentemente indossati. Più fermo nello spazio ma con un’interpretazione lunghissima e senza mai esitazioni, offrendo una significativa prova attoriale. Magnetica e capace di creare grande empatia con il pubblico, che resterà captato durante tutte le due ore e venti di spettacolo. La sua entrata in scena è a passo lento, percorrendo tutto il bordo della grande “sagoma del delitto” che è stata allestita in platea, smontando le poltrone. Scenografia geniale e di impatto, ad opera di Giuseppe Stellato. La sagoma è posta davanti a tutti e la verticalità del Bellini permette di creare, tra gli spettatori nei palchi, la sensazione di affaccio dall’alto verso il corpo caduto. Il morto è posto lì e l’obiettivo non è tanto trovare risposte ma seminare i giusti interrogativi, ripercorrendo tutta la vicenda. Daniele Russo, dopo aver pronunciato il titolo, a rilento simula una caduta verso il suolo, nella esatta posizione della sagoma. Offrendo al pubblico un avvicinamento d’effetto.
Verità spiazzanti ed interrogativi vengono presentati dal protagonista. Il matto arrestato undici volte ed impazzito sedici, è affetto da una fantomatica “istriomania”, definita da lui come “l’hobby di recitare parti”. In modo pirandelliano egli indossa le sue maschere, che sono tutte vere nelle intenzioni, al punto che ogni menzogna diventa credibile ed ogni presunta verità diventa ridicola. In un susseguirsi indosserà prima i panni di uno psichiatra, poi quelli di un giudice, poi di un commissario della scientifica ed infine anche di un vescovo. Ripercorrendo i fatti, analizzando i verbali, esaminando le affermazioni del commissario, dell’appuntato e del questore. Proprio la credibilità diventa focale nel suo dialogo con lo Stato, che diventa un continuo manipolare i manipolatori. Interessante sarà l’espediente attuato nel secondo tempo, che vuole coinvolgere gli spettatori della platea seduti su palco, con la consegna di berretti da poliziotti. Indossandoli si attuerà l’immagine di grande impatto per cui gli spettatori diventano al contempo testimoni delle vicende ma inerti nella possibilità di fare qualcosa.
Sottolineata in più punti è la trasposizione cui fu costretto Dario Fo, poiché coinvolto in numerosi processi. Per evitare problemi decise di spostare l’ambientazione della commedia dall’Italia agli Stati Uniti d’America. Inserì una traslazione che non legasse solo la narrazione al fatto d’ispirazione, della morte avvenuta nel 1969 di Giuseppe Pinelli, ma si collegasse anche ad un altro evento similare, che ebbe come protagonista un emigrante italiano precipitato dal palazzo della polizia di New York negli anni Venti, Andrea Salsedo, amico di Vanzetti. È particolare il fatto che, nello spettacolo, i tre personaggi della questura, interpretati dagli attori Annibale Pavone, Edoardo Sorgente ed Emanuele Turetta, stiano in scena con indosso, legati a cavalcioni sulle schiene, alcuni fantocci (realizzati presso il Laboratorio Alovisi Attrezzeria) raffiguranti le stesse cariche ma dislocate nel tempo. Quasi a significare il peso perenne che i ruoli di responsabilità nell’Arma si trascinano.
Nel momento in cui giunge la giornalista Maria Feletti, interpretata dall’attrice Caterina Carpio, inizia un faccia a faccia diretto, in un rimbalzo tra accusa e discolpa senza effettiva risposta. La denuncia è rivolta al potere che diventa abuso, e che ha portato «giù da quella maledetta finestra di quel maledetto palazzo milanese ad una morte accidentale». Accidentale, aggettivo sottolineato per la casualità dell’evento, che vuole discolpare tutti. «Lo scandalo è il miglior antidoto al peggior veleno (la coscienza del popolo).[..] Al cittadino non importa che le porcherie scompaiano, ma solo che vengano a galla». Un suono costante e ripetuto fa di sottofondo a tutta la pièce.
«MATTO – E’ un Longber acustico. BERTOZZO – Un Longber acustico? Ma dove l’hai trovato? MATTO – Ce l’avevo io… (Indica la grande borsa). Qui dentro io ho tutto! Avevo perfino un registratore sul quale ho registrato tutti i vostri discorsi da quando sono entrato. Eccolo! QUESTORE -E cosa intende farne? MATTO – Riverso i nastri un centinaio di volte e li spedisco dappertutto: partiti, giornali, ministeri. Questa sì che sarà una bomba! QUESTORE – No, lei non può fare una cosa simile. Lei sa benissimo che quelle nostre dichiarazioni sono state tutte falsate, distorte, dalle sue provocazioni di falso giudice! MATTO – E chi se ne frega, l’importante è che scoppi lo scandalo! Anche il popolo italiano come quello americano, diventi socialdemocratico e moderno e possa finalmente esclamare “Siamo nello sterco fino al collo è vero, ed è proprio per questo che camminiamo a testa alta!”»
La regia di Latella rende attuale Dario Fo, non nella cieca riproposizione ma nel rischio assunto di una viva ed innovativa rivisitazione. Soprattutto nell’obiettivo palese non di condannare ma di rinverdire, nella coscienza di tutti, l’importanza di scongiurare certi errori affinché la storia non si ripeta.
costumi 𝗚𝗿𝗮𝘇𝗶𝗲𝗹𝗹𝗮 𝗣𝗲𝗽𝗲, musiche e suoni 𝗙𝗿𝗮𝗻𝗰𝗼 𝗩𝗶𝘀𝗶𝗼𝗹𝗶, luci 𝗦𝗶𝗺𝗼𝗻𝗲 𝗗𝗲 𝗔𝗻𝗴𝗲𝗹𝗶𝘀, movimenti 𝗜𝘀𝗮𝗰𝗰𝗼 𝗩𝗲𝗻𝘁𝘂𝗿𝗶𝗻𝗶, assistente alla regia 𝗠𝗮𝗿𝗶𝗮𝘀𝗶𝗹𝘃𝗶𝗮 𝗚𝗿𝗲𝗰𝗼.
foto di Flavia Tartaglia