RECENSIONE – Ci sono momenti in cui il teatro smette di raccontare storie e inizia a scuoterti, a toccarti nel profondo. “Baùbo – de l’art de n’être pas mort”, diretto dalla regista francese Jeanne Candel, non è un semplice spettacolo: è un rito, una festa selvaggia, un urlo che parte dalle viscere.
In scena al Teatro Bellini fino a domenica, Baùbo chiude la sezione internazionale del cartellone. Un’esperienza che non lascia indifferenti, un viaggio teatrale che usa l’osceno in modo potente, quasi sacro. Tutto parte da Baùbo, figura della mitologia greca: una vecchia che con un gesto scandaloso riesce a strappare Demetra dalla sua disperazione. Da lì nasce una metafora fortissima: la vita che si ribella, che rinasce anche nel dolore più cupo.
La storia inizia con una donna distrutta dal lutto. È il buio, la depressione, l’idea del niente. Ma la lingua che viene usata in scena – una specie di lingua inventata – rompe ogni schema e ci porta in un mondo strano, emozionale, senza logica, ma tremendamente vero.
Poi succede qualcosa. Una scossa, un istinto primordiale prende il sopravvento. Il corpo si libera, l’osceno diventa simbolo di rinascita. Ed è lì che arriva Baùbo, con tutta la sua forza, e lo spettacolo cambia volto: esplode in un turbine di musica, danza, suoni e corpi in movimento. Niente più parole: solo ritmo, canto, pura energia.
I sette attori-musicisti sul palco sono l’anima viva di questo caos creativo. Le musiche – barocche, intense, a tratti ipnotiche – accompagnano un racconto che sembra una festa antica, una messa laica dove la morte si lascia alle spalle e la vita torna a brillare, sfrontata e libera.
In un mondo dove tutto sembra uguale e prevedibile, Baùbo è un gesto di rottura, un invito a guardarsi dentro senza paura e, magari, a riderci anche un po’ su. Come dice Candel, il teatro ci collega alla nostra follia e al nostro bambino interiore.
Napoli, con tutta la sua storia e la sua anima, è davvero il posto giusto per accogliere uno spettacolo così. Da vedere e da vivere.