INTERVISTA – Fabiana Fazio, attrice partenopea, autrice e regista teatrale. Sarà in scena mercoledì 21 ottobre al Teatro Solidale promosso dal Teatro Sannazaro con lo spettacolo “Soulbook”, da lei scritto e diretto. La vedremo in scena insieme ad Annalisa Direttore e Giulia Musciacco. Ci ha raccontato, svelando un animo forte e deciso, alcuni approfondimenti sullo spettacolo e alcune sue personali opinioni sulla situazione attuale dei teatranti, per niente facile in questo periodo d’emergenza.
Sei attiva con diverse realtà a Napoli e scritturata in diverse produzioni, quale identifichi come la tua famiglia teatrale?
Sicuramente il Teatro Elicantropo, mi sono formata con Carlo Cerciello e ancora oggi proseguono collaborazioni per progetti insieme. Lui è il mio papà teatrale, lo è in realtà di tutto il gruppo con il quale ancora collaboro. Ho la fortuna di lavorare con un insieme di persone con cui c’è grande sinergia. Se non siamo tutte in scena, le altre sono sempre dietro le quinte come aiuto regia, sono un po’ il mio occhio esterno quando io sono in scena. In qualche modo siamo una compagnia stabile più di tante altre, anche se non ancora legalmente costituita. E’ un passo che faremo presto, anche perché spesso non sanno come chiamarci. Sono grandi professioniste e sono grata di averle al mio fianco: Angela Carrano, come aiuto regia, Giulia Musciacco, Annalisa Direttore, Valeria Frallicciardi e la giovane assistente alla regia che da poco collabora con noi ma che con grande piacere annovero, Serena Cino. Ci sono poi gli immancabili Tommaso Vitiello e Marco Perrella alle luci.
Si può dire che i vostri spettacoli, seppur diversi, abbiano tutti in fondo un filo conduttore?
Il tema della nevrosi, intesa come l’inquadramento del sé e la distanza da sé, che oltre al progetto Nevrotika giunto alla parte terza, viene declinato anche in “MisStake” incentrato sull’amore considerato come disturbo nell’adattamento o nell’ultimo Soulbook che tratta il mondo dei social e sarà in scena al Teatro Sannazaro mercoledì 21 ottobre.
Ci parli un po’ della grande opportunità del “Teatro Solidale” promosso dal Teatro Sannazaro?
Già normalmente il teatro indipendente fa fatica a mantenersi vivo, adesso più che mai c’è maggiore incertezza. Il teatro solidale è stato un segnale forte di dire “Diamo una casa a chi non ce l’ha” cioè i gruppi indipendenti che non sono legati a nessun teatro nello specifico. “Prendetevi la casa, che sia per un giorno o sia per due” chiaramente è simbolico, con una data non si risolve la situazione di nessuno, ma è per mettere in moto una macchina, occhio, guidata dagli addetti ai lavori ma sorretta dal pubblico. E’ un po’ il patto di fiducia di questo tempo, che si suggella tra la compagnia e lo spettatore, noi vi mettiamo in condizione di stare tranquilli a livello sanitario, voi sosteneteci.
Il teatro è messo a dura prova in questo periodo e molti sono i tavoli di confronto che si stanno richiedendo per riportare l’attenzione sulla situazione attuale dei teatranti. Tu cosa ne pensi?
Ritornando all’importante occasione che ho avuto io di poter andare in scena con Il Teatro Solidale, è forte il fatto che questo gesto sia giunto dagli adetti ai lavori, dai teatri e dalla loro sensibilità, e non dal Governo. La nostra professionalità non è data per scontata, ora non voglio fare la parte di quella che dice “perché non ci guardate a noi teatranti?”, è normale che a me preme la tutela di tutti i cittadini e di tutti i lavoratori, non è che il teatro viene prima ed è considerato poco. Ovviamente io parlo di quello che conosco, ho la fortuna insieme alle mie colleghe di lavorare anche come scritturata con teatri ma chi non ha questa fortuna e vive solo portando avanti i propri progetti, diciamo che adesso è più spaesato che mai. Nel momento in cui i teatri non vengono chiusi, vengono lasciati aperti ma si crea intorno l’impossibilità di accedervi, perché si semina il panico nelle persone, la paura, il coprifuoco, le difficoltà nell’utilizzo dei mezzi pubblici, i locali chiusi, è chiaro che le persone non vengono volentieri. Tante persone, vista la situazione, sono anche più invogliate per propria sensibilità ad andare a teatro ma altre, che sono meno informate, non ci vengono. La cosa più facile da fare sarebbe mollare la presa, e fermarsi, chiaramente non se ne fa più un discorso economico, gli spettacoli di adesso sono un investimento e nient’altro. Se decidiamo di farlo è perché c’è la voglia di dare un segnale.
In altri Paesi, chi produce arte e cultura, ha un riconoscimento diverso. Noi non lavoriamo solo il giorno dello spettacolo, c’è lavoro di creazione, quello di ricerca, per non parlare di quello di preparazione di scenografia e costumi. Qui tutto questo è riconosciuto solo a certi livelli. Già prima di questa emergenza c’erano delle falle terribili nel sistema, ora davvero si arranca. Adesso il lavoro che è già intermittente diventa intermittente nell’intermittenza. Non è un obbligo fare questo lavoro, è una scelta, c’è chi non ce la fa più e cambia. Ma è triste pensare che in un Paese fondato su cultura e arte sia così difficile vivere di questo che è un lavoro.
Parliamo di “Soulbook”, in scena il prossimo 21 ottobre, incentrato sul mondo dei social. In alcune note di regia lo definisci come “un luogo che non ci appartiene e a cui apparteniamo”.
E’ uno spettacolo in continuo aggiornamento rispetto ai trend, è nato un paio di anni fa con debutto secco al Nuovo Teatro Sanità. L’idea nacque durante l’attuazione di un progetto scolastico, ci era stato richiesto di trattare l’argomento, naturalmente si è subito fatta strada l’idea che sarebbe potuto essere uno spettacolo per tutti. Ci siamo rese conto che sembrava stessimo giocando ad un gioco di società in cui trasportavamo le dinamiche che avvengono sui social nel modo in cui sarebbero nella vita reale, riportando fuori dallo schermo le faccine, i cuori e gli abbracci. E’ grottesco, ironico, siamo come bambini che giocano, ma male a questo gioco. Seguono delle regole ma poi le criticano. Anche chi viene meno alle regole è incluso nelle stesse, nessuno può reputarsi salvo da questa rete. Anche chi non è pedina del gioco sta giocando e sta fermo un turno.
Quale chiave avete trovato per raccontare questo astruso mondo?
Analizziamo queste dinamiche dal punto di vista di diversi prototipi. Ci sono tante persone che “influenzano” e poi c’è qualcuno che potrebbe definirsi “sano” che sceglie tra questi diversi prototipi (influenzer di moda, sport, salute, food,…) e spesso si ritrova a non sapere scegliere. L’opinione magari se la deve formare. Si prenderebbe tempo di capire ed informarsi ma in un società in cui tempo non ce n’è, vince chi parla per primo con tutto il vuoto che lo accompagna. Vederci da fuori mentre facevamo queste cose ci ha fatto rendere conto che nessuno è davvero salvo dal gioco della gara al like, anche chi se ne ritiene fuori, persino noi. E’ uno specchio, distorto con noi stessi al centro. Sembra tutto tanto lontano invece è molto più vicino di quello che può sembrare. L’autoironia ci aiuta molto come mezzo, perché non si può toccare il dramma che già c’è. Per quanto riguarda la scenografia, abbiamo scelto di inserirci nel bianco asettico tipico degli spazi social di Facebook e Instagram, inquadrate in cornici definite che dovrebbero rappresentare tutto il nostro essere.. Gli oggetti sono resi in cartone, quanto più caricaturali possibile. Realistico no?!
Quale credi sia il più grande tranello di questo mondo social?
La mia posizione come autrice nei confronti dei social non è affatto negativa in generale. Però è chiaro che lo spettacolo è oggettivo, il nostro è uno sguardo critico sulla deriva che stiamo prendendo. Le cose buone dei social le sappiamo, e sono inerenti all’accorciare le distanze. Però si è persa la voglia di andare a prendersi quella cosa lontana, la comodità è diventata una zavorra che ci blocca. Io ci sono assolutamente dentro per lavoro, ma un po’ più consapevole per via dell’età che ho. Veramente non si salva nessuno. Oramai è diventato un credo, Facebook e Instagram sono diventati la famiglia. Siamo una comunità, parola utilizzata in tutti i modi, che come per tutte le cose, se ripetute troppo spesso sono svuotate di ogni significato.
Ci è data una tale possibilità di scelta, di argomenti, di gusti e cose, che in qualche modo si annulla la capacità del singolo di sapere cosa gli piace. C’è un annullamento del gusto personale, un annullamento della capacità di scelta. Lo scegli perché ti viene propinato. Non per questo spettacolo, ma per un altro, abbiamo ragionato sul tema della pornografia, oggigiorno c’è un accesso così facilitato che questo ha molto a che fare con la formazione deviata di certi ragazzini del mondo di oggi. Il fatto che prima se lo dovevano andare a cercare, a scegliere e capire cosa gli piaceva, aiutava la formazione. Oggi non c’è, a loro piace tutto, e dire tutto equivale a dire niente. Dire oggi posso avere tutto, equivale a dire non voglio niente, non so che voglio. Questa è la tematica che ci interessa più di tutte. Io non voglio fare la retrograda, io sono una persona perfettamente inserita e lieta di vivere questo tempo però sono nata a cavallo del passaggio tra il mondo non digitale e quello digitale. Quando ero a scuola, internet vagava nell’aria ma non era alla portata di tutti. La fatica di fare una ricerca ti forma un gusto forte che nessuno ti toglie più. Non voglio demonizzare assolutamente il mezzo. Anche io sono contenta di trovare in due secondi le cose su Amazon o scaricare un pdf dalla libreria dell’archivio americano degli Stati Uniti. Però io so fare quello e quello. Adesso pare che se ti si spegne il cellulare, ti si spegne il cervello.
© foto in copertina di Tiziana Mastropasqua.