Intervista all’artista Maurizio Casagrande inserita nel numero Aprile 2020 di Napoli a Teatro.
Fu la batteria, lo strumento musicale che nel coinvolgere tutti gli arti contemporaneamente influisce sull’abilità di coordinazione e sulla concentrazione, a fare da singolare premessa per la carriera di un attore e regista come Maurizio Casagrande. Fu proprio pensando ai grandi divi delle percussioni Ringo Starr, Neil Peart e Louise Bellson, infatti, che il popolare artista, figlio del famoso attore Antonio, decise di avvicinarsi alla musica con una banda rock e non al palcoscenico con la commedia. “Da ragazzo – ha raccontato Casagrande – ero lontano dal mondo del teatro, tant’è che nonostante un papà attore, artisticamente nacqui come musicista. Ciò perchè da bambino, ero convinto che tutti studiassero musica visto che a casa mia lo facevano mia mamma, mia nonna, mia zia Ersilia e mia cugina. Seguendo naturalmente il flusso delle note e avvicinandomi alla chitarra, al contrabbasso, al piano, al canto e alla batteria, ero convinto che le note stessero all’origine di ogni studio. A dire il vero anche oggi sono convinto che imparare a studiare la musica apre la mente meglio di ogni altra cosa”.
Come accadde, che un provetto musicista come lei, alla fine, si convertì al teatro ?
“Erano gli anni Ottanta e mio padre aprì una scuola di recitazione chiamata ‘Bottega Teatrale del Mezzogiorno’. Ora visto che nella sua visione di attore riteneva indispensabile che i suoi allievi avessero almeno un’infarinatura di musica e di ritmo, mi chiese di insegnare un poco di solfeggio e di ritmica. Io naturalmente accettai e il frequentare tanti aspiranti attori anche quando non avevo lezione, finì con il farmi appassionare alla recitazione. Giunti al terzo anno di corso e alla prova finale, avvenne l’imprevedibile. Un iscritto, risucchiato da quei fermenti politici e contestatari dell’epoca, non si presentò al saggio perchè arrestato dalla polizia e io incitato da mio padre dovetti sostituirlo”.
Una situazione dettata dal destino che poi le consentì di conoscere tanti artisti emergenti di quei tempi?
“Il primo a notarmi fu Nello Mascia che nel mettere in scena ‘L’ultimo scugnizzo’ di Viviani mi disse che, secondo lui, sarei stato perfetto per il ruolo di Pascalino figlio dell’avvocato Razzulli. Fu così che mi ritrovai a fare l’attore, senza presunzione, anche perchè notavo che in scena tutto mi riusciva più facile rispetto agli studi musicali. Mentre per la musica tutto mi appariva in salita per il palcoscenico, al contrario, tutto si mostrava in discesa”.
Quale fu la sua vera prima grande occasione teatrale?
“Quella verificatasi al Teatro Bellini. Dopo che lo storico spazio grazie a Tato Russo e a una cordata di soci fu strappato dallo spettro del cinema di terz’ordine con i palchetti fittati come tanti alberghetti a ora, fu lo stesso attore e regista Tato ad affidarmi la parte del cantastorie nel suo allestimento dell”Opera da tre soldi’ di Brecht. Per il mio ruolo, portai in scena una sorta di burattinaio con a tracolla una serie di marionette che cantava e faceva giochi di prestigio. E il fatto singolare fu che io, per ottenere quella scrittura, feci il provino come tutti gli altri. Solo dopo l’affidamento della parte, Tato, notando più attentamente il mio cognome, mi chiese: ma tu appartieni a Casagrande l’attore? Scoprendo che fossi il figlio! E fu a dir poco strano, in quella stessa occasione, l’osservare il ribaltamento dei meccanismi normali. Infatti anziché ottenere più facilmente la parte perchè figlio d’arte fu io involontariamente a stimolare Tato per l’inserimento anche di mio padre nella compagnia. Russo, visto che papà per vari problemi si era un attimo allontanato dalle scene, mi chiese: ‘ma tuo padre recita ancora?’ E al mio sì non esitò nel chiamarlo e nell’affidargli con successo il ruolo di Peachum l’ebreo. Il suo entrare in compagnia, indirettamente procurato da me, fece fare un salto di qualità a tutto il lavoro che ottenne dei grandi consensi da parte della critica”.
Quali grandi personaggi si legano ai suoi esordi? E poi lei, ha mai avuto bisogno di raccomandazioni?
“Ho avuto il piacere di essere vicino a personaggi come Scaparro, Gregoretti e Buzzanca. Fu quest’ultimo, a proposito di raccomandazioni, una volta appreso del mio momento di difficoltà di lavoro, a imporre alla produzione di inserirmi nel cast del suo ‘Malato Immaginario’. Dapprima mi disse: ‘come fa un attore come te a restare senza lavoro?’ E poi, rivolgendosi alla responsabile amministrativa, affermò che se non avessero preso me non avrebbe lavorato neanche lui. Ma attenzione, si trattava di una raccomandazione che prevedeva nel contempo un’attestazione di responsabilità. Chi lo faceva a quei tempi (rispetto ad oggi dove spesso si parla solo di imposizioni di potere) si assumeva anche il compito di garantire la bravura della persona presentata”.
E’ evidente che lei agli esordi era impegnato in ruoli definibili “seri”. Come avvenne il suo passaggio alla comicità?
“In effetti facevo sempre l’attore serio e al massimo qualche volta il brillante. In quanto amico di Francesco Paolantoni, nel ’91 conoscendo tramite lui l’attore Sarcinelli, mi ritrovai a partecipare ad una trasmissione modello ‘Alto Gradimento” su radio Kiss Kiss. Fu in quella situazione che mi ritrovai a fare il comico alle prese con dei testi da varietà nati per fare ridere gli ascoltatori. Grazie a quel programma intitolato ‘A tutti coloro” compresi il meccanismo della risata vincendo insieme agli altri anche un importante “Telegatto” (allora era presente anche la categoria radiofonica) come migliore varietà dell’anno, scompaginando l’egemonia radiofonica del nord Italia e imponendo una radio napoletana su quelle milanesi”.
Ci può parlare adesso del suo incontro con Salemme?
“Partendo dal concetto che nella vita non bisogna mai perdersi nulla perchè non si può mai sapere qual è la cosa che ci può offrire il grande slancio (basta pensare al primo batterista della nascente formazione dei Beatles che abbandonò il gruppo) il mio incontro con Salemme fu straordinario. Lui lavorava nella compagnia di Luca De Filippo ma ebbe l’occasione di presentarsi come capocomico al Sancarluccio. Fu in quello spazio, insieme alla compagna di Paolantoni, Paola Cannatello, che io rimasi folgorato dal suo modo di fare teatro. Feci un primo spettacolo con lui e noncurante della evidente mancanza di soldi, compresi che insieme eravamo una macchina da guerra. Vincenzo ha rappresentato la grande svolta della mia carriera. Fu grazie a lui e alla sua compagnia che divenni un attore conosciuto dal grande pubblico con i primi fan club all’attivo”.
Qual è il lavoro che ha portato in scena con Salemme a cui è più legato?
“Non riesco a fare distinzioni anche se ricordo particolarmente ‘E Fuori nevica’, per il quale pur accettando un ruolo piccolo ebbi l’opportunità di mettere a punto il famoso tormentone di ‘Hablate’ pronunciato dal personaggio dell’ avvocato creduto spagnolo. Mi disse Salemme, ‘anche se il ruolo è piccolo accettalo altrimenti va a finire che ci perdiamo’. E io accettai giungendo poi all’altra commedia ‘La gente vuole ridere’ che segnò la mia definitiva svolta. Fu questo lavoro, infatti, a farmi rendere conto della mia vocazione per il condurre le situazioni. Poi arrivò il cinema con ‘l’Amico del cuore’ e ‘Amore a prima vista’ che secondo me rimane il più bel fim di Salemme. La coppia formata da me e Vincenzo risultava fresca e potente e anche nella recente esperienza in diretta sulla Rai, con ‘Di mamma ce n’è una sola’, ho potuto constatare che dieci anni dopo il ritmo è rimasto veloce e senza appesantimenti dovuti al nostro invecchiare fisico. Testimoni del successo sono stati i tanti post apparsi sui social. Per me incontrare di nuovo Salemme e ritrovarlo in scena è stato un piacere oltre che un’opportunità per capire tante cose”.
Dopo l’idillio con Salemme poi giunse il bivio!
“Si dopo l’idillio con Salemme arrivò il Maurizio capocomico che metteva in scena i propri lavori e che nonostante gli attacchi della critica, pensando solo al pubblico, cercava di fondere insieme il cinema e il teatro”.
Anche per lei il vero teatro è morto?
“Il teatro è più che mai vivo. E’ morto solo un certo tipo di teatro. Nella storia dell’umanità da sempre vi sono stati i cambiamenti e oggi in virtù dell’evoluzione della società e dei modi di pensare il teatro è cambiato adeguandosi alla tecnologia e ai tempi. Dalle candele in scena si è passati alla lampadine e poi ai laser. Tutto è cambiato a parte il racconto teatrale per il quale ritengo siano giunti i tempi per rompere i vecchi schemi e diventare più spudorati. Personalmente mi rimetto sempre in gioco e anche il mio ultimo successo al teatro Cilea mi ha fatto capire che le persone sono sempre più vicine ad un tipo di spettacolo innovativo. Per me, all’età di 58 anni, è stato bello riuscire a rinnovarmi e a proporre qualcosa di nuovo”.
Come terminerebbe questa intervista?
All’americana con la frase… to be continued! Non è finità qui! Quando avevo venti anni non mi sarei mai sognato di seguire una persona di sessanta. Ecco perchè oggi, il comprendere che tanti giovanissimi mi scrivono fino a farmi adottare il loro linguaggio e i loro neologismi, mi riempie di gioia. Sono i ragazzi a stimolarmi e a farmi inseguire la bellezza dell’innovazione insieme a quella risata oggi racchiusa nell’acronimo ‘Lol’. Una sigla che, come imparato dagli amici con quarant’anni meno di me, significa ‘Laughing Out Loud (o Limits)’ ossia, ridendo forte”.