INTERVISTA – Mariano Bauduin, classe 1979. Regista teatrale, musicista e Direttore del Beggars’ Theatre di San Giovanni a Teduccio dal 2014. Braccio destro, per ventidue anni, di Roberto De Simone e Direttore della compagnia “Gli Alberi di Canto” nata nel 2012. Ha curato la regia di produzioni d’opera in scena al Teatro San Carlo di Napoli e al Teatro Verdi di Salerno. Attesissima la prima dell’Aida in scena il prossimo giugno alla Fondazione Lirico Sinfonica Petruzzelli di Bari. Lo abbiamo incontrato per qualche racconto sul suo “Beggars’ Theatre – Il Teatro dei Mendicanti” che da anni opera nella periferia come propulsore di cultura e professionalità.
Ci racconti delle radici ed il cuore di questo Teatro?
Io sono arrivato per la prima volta a San Giovanni a Teduccio sei anni fa. Ero con il Maestro Roberto De Simone e stavamo facendo delle indagini sul territorio metropolitano, in relazione a quelli contadini, che continuavamo a studiare. Una delle nostri attrici e cantanti, Patrizia Spinosi, conosceva questa realtà di un gruppo di donne che cantava in un coro, all’epoca parrocchiale, e ci suggerì di venire ad ascoltarlo. Devo dire la verità, trovammo entrambi molto interessante la vocalità di queste persone che, per essere un coro di periferia, aveva ancora delle forti radici contadine. Dopo un primo periodo di collaborazione con la mia compagnia “Alberi di Canto”, una volta compresa l’energia, l’adesione e la partecipazione, a distanza di poco tempo decidemmo di fare un passo successivo e fondare un teatro e quindi nacque il Teatro dei Mendicanti. Il nome è un chiaro riferimento al teatro seicentesco shakespeariano. La periferia mi ha sempre fatto pensare agli esperimenti inglesi del Seicento, dove appunto i teatri non nascevano nei centri cittadini ma in periferia. Un teatro che arrivasse il più possibile a chiunque, mi sembrava un buon principio per incominciare un progetto. Shakespeare arrivava alla gente del popolo e alla borghesia e li strabiliava tutti. La mia intenzione non era quella di costruire un teatro che si adattasse alla realtà locale, in questo caso periferica, ma che proponesse alla realtà locale un’alternativa. Quindi non raccontando storie della quotidianità ma altre, forse in apparenza lontane, che con la potenza dell’arte potevano giungere in tutte le sue stratificazioni. Beggars’ Theatre nasce dalla scoperta di persone che avevano voglia di conoscenza e di qualcosa che non era arrivato a loro. Io penso che se Caravaggio arrivasse in certe zone, in cui non è pensabile una sua mostra, di sicuro l’animo umano ne percepirebbe la bellezza autentica ed immediatamente ne avrebbe l’istinto di difenderlo e non distruggerlo. E’ il primo istinto dell’essere umano per le cose belle, di conservarle, magari di appropriarsene per assurdo. Questo senso di appropriazione porta in realtà anche un senso di difesa. Allora sono convinto che se si porta qui quello che normalmente non arriva, come il teatro e la musica colta, non è detto che questa non venga accettata. Il teatro deve avere un linguaggio universale ed ognuno può percepirlo secondo il proprio filtro e sensibilità, questo deve fare l’arte. De Simone mi diceva sempre: «Il contenuto del teatro è il teatro». Non è che c’è un altro contenuto. Per me il Beggars’ è questo, è un contenitore che al suo interno ha il contenitore stesso, non c’è altro.
Il Beggars’ Theatre ha dimostrato di essere a pieno un centro di promozione culturale
Il Beggars’ ha dimostrato proprio questo. Feci studiare un corale di Stravinskij che era fatto per strumenti a fiato e che invece avevo trascritto per voci, loro lo hanno cantato con un’imprevedibile naturalezza. Il fatto divertente era che io lo chiamavo Stravinskij e loro lo chiamavano Swarovski! (ride) però anche questa cosa va bene. In fondo mi ha ricordato un concetto molto bello di una grande antropologa che è Tullia Magrini, lei parlava dei concetti memorabili dicendo che la memorabilità in realtà è qualcosa che viene filtrato dalla coscienza di ognuno di noi, poi subisce delle modifiche e diventa non più memoria ma memorabile. Quindi credo molto nell’importanza di basare la ricerca e le attività innanzitutto sulla memoria. Sono sempre stato convinto che se si riesce a ricucire il corto circuito, riattivando quel baratro tra il passato da cui veniamo ed il presente, si può ricostruire quell’identità di ognuno di noi che è antichissima e ci permette soprattutto di proiettarci nel futuro quindi essere persone nuove e migliori. Due anni fa ho realizzato, al Teatro Verdi di Salerno, l’inaugurazione con il Flauto Magico di Mozart, in quella circostanza proposi al direttore artistico, Daniel Oren, di tradurre tutto il Flauto Magico, cioè non farlo in tedesco ma farlo in italiano. Ho rifatto una traduzione di tutto il libretto di Schikaneder, tra italiano, napoletano e linguaggio barocco. Ci ho messo quattro mesi e mezzo, è stato un bel lavoro. C’era una parte nell’opera che di solito si fa con gli attori, che sono gli sklaven, per quell’occasione anziché usare degli attori o dei figuranti, ho scelto sei adolescenti del Beggars’, i più piccoli e me li sono portati a Salerno a fare il Flauto Magico. Ora questi ragazzi non sapevano manco Mozart chi fosse, non avevano mai sentito un’opera lirica in vita loro. Ma la cosa bella è che durante il viaggio, iniziarono a cantare felici a ripetizione le arie di Mozart. Anche se tra dieci anni faranno altri mestieri, nella loro memoria esiste il Flauto Magico di Mozart e già questa è una vittoria.
Molti ragazzi hanno trovato qui ispirazione e possibilità di formazione.
Rosario Martone, ad esempio, è un ragazzo che era parte di questa corale, studiava all’università ed aveva un suo percorso. Io l’ho avuto come cantante con voce di contralto straordinaria, senza aver studiato musica. Poi quando ho portato a San Giovanni la nostra collezione di costumi, che secondo me è il nostro Caravaggio. Lui ha scoperto la passione per l’arte della sartoria, si è iscritto e laureato all’Accademia di Belle Arti e ora è nella squadra di Zaira De Vincentiis. In questo caso un’occasione si è trasformata in formazione e lavoro. Un altro ragazzo che si è distinto molto per l’energia in questo progetto è Gaetano Amore, che adesso sta studiando al conservatorio Canto Lirico. Io non credo che il semplice fatto di essere abitanti di un quartiere difficile ed appartenere ad un contesto sociale estremamente complesso fa delle persone artisti. L’arte è un altro discorso, il talento è una cosa che nasce perché ce l’hai, può succedere ovunque in qualunque posto in modo casuale. Io credo che il fatto di essere in una condizione di difficoltà non debba creare privilegi, perché altrimenti va a finire che un malessere possa diventare una casta, forse anche peggiore di quella dei figli di papà. L’arte è mestiere, ha bisogno necessariamente di competenze, studio, preparazione ed esperienza, che è uguale per tutti.
Ora parliamo del tuo “Caravaggio”?
(Sorride) Questa è una follia. Quattro anni fa, un’importantissima sartoria romana che si chiama “GP11”, che adesso si è trasformata e si chiama “The One”, ha dovuto lasciare i magazzini e si sono trovati nella difficoltà di dover smaltire moltissime cose. La mia amica costumista Odette Nicoletti, dato che in questa sartoria noi custodivamo i costumi di Gatta Cenerentola, mi chiamò per avvisarmi che innanzitutto era necessario recuperare quei costumi, ma che anche gli altri sarebbero andati persi. Dopo un primo momento di titubanza solo logistica, ho detto subito di si. E sono andato a recuperare i costumi che sono di spettacoli fondamentali del nostro teatro. Per citarne alcuni ci sono costumi di Vera Marzot realizzati per Luca Ronconi, alcuni degli spettacoli di Enrico Job, non si potevano distruggere o lasciare a chi non poteva apprezzarli. Sono andato a recuperarli, poi si sarebbe visto cosa farne. Ho iniziato a tenerli esposti, non ci sono cordoni, non c’è scritto “non toccare”, perché poi sai, il costume teatrale ha bisogno anche di essere toccato. Chiaro non va distrutto, ma da quando sono qui non ho mai avuto danni, i ragazzini di tutte le età che passano, li guardano e toccano, non hanno mai rotto nulla. Credo sia per una coscienza di autotutela del bello, e allora perché non mostrarglielo? Perché non fargli sentire che non sono cose lontane? Qualcuno in passato mi ha anche suggerito di noleggiarli per ricavarne qualcosa, ma non era nelle mie intenzioni. A me interessava inserire un patrimonio materiale, così da dimostrare alla gente che la cultura non è solo immateriale. Sarebbe bello se in futuro ci fosse una parte espositiva più ampia, dove poter fare delle mostre su autore, o la possibilità di un laboratorio in cui poterli restaurare.
Ci parli dei corsi avviati qui al Beggars’ Theatre?
L’ambizione del Beggars’ Theatre è quella di essere un centro di produzione, dove i costumi, le scene, gli attrezzi, si realizzino tutti qua. Abbiamo iniziato da pochi giorni un corso di Sartoria Teatrale ed un corso di Scenotecnica tutti e due finanziati dalla Fondazione Banco di Napoli. Poi c’è il corso permanente della Corale di San Giovanni, che è sempre aperta a tutti, chiunque voglia venire, canta, sta con noi, non c’è bisogno di audizioni, non c’è bisogno di saper cantare. Quella è davvero il polmone del Beggar’s Theatre. Poi abbiamo una corso di Canti e Danze di Tradizioni Popolari. E poi c’è un progetto sperimentale delle Officine Beggars’ che si chiama “Shakespeare allo specchio”, progetto in cui sto tentando di far studiare ai ragazzi la recitazione shakespeariana così come si dovrebbe fare. E’ un limite prettamente italiano quello di aver tradotto le storie stupende ed universali di Shakespeare, senza tenere conto della sua scrittura in versi, cosa non affatto casuale nella sua stilizzazione. In Otello, ad esempio, lui recita in versi mentre tutti gli altri in prosa, il personaggio più barbaro è quello che parla più colto. Se non teniamo conto di questo nelle traduzioni, abbiamo tolto la metà del contenuto da lui voluto. Le sue non sono solo storie ma linguaggio e forma, con “Shakespeare allo specchio” io voglio tentare di insegnare la recitazione shakespeariana partendo dalla recitazione del verso. Ovviamente un progetto di teatro in periferia non può essere “Io faccio il San Carlo a San Giovanni”, devo fare un progetto ad hoc per il quartiere cercando di ricucirne le criticità. Risolverle in qualche modo portando cultura. E’ un lavoro culturale, non è che può ambire ad altri ambiti. L’aspetto sociale è un valore aggiunto, non può diventare il valore predominante perché devia. Gli artisti non sono assistenti sociali, anche se molto spesso hanno bisogno loro degli assistenti sociali! (qui sorride). L’arte è arte, ha le sue contraddizioni, le sue precarietà e amoralità, è sempre stato così. Già di per sé non può diventare socialmente utile ma socialmente necessaria.
Cosa possiamo anticipare del prossimo spettacolo “Pollicinella”?
Lo spettacolo “Pollicinella e i canti de lo carnevale” andrà in scena dal 21 al 23 febbraio nell’ambito del Festival di formazione e teatro sociale “Quartieri di Vita” curato dalla Fondazione Campania dei Festival. Sono stati analizzati i tre aspetti diversi della maschera. Costruire vari livelli è una cosa che amo fare nei miei spettacoli. Da una parte c’è la maschera colta come la ritroviamo nel teatro barocco settecentesco, quindi attraverso le opere di Paisiello, di Leonardo Vinci, cioè della grande scuola musicale settecentesca che ha stilizzato la maschera. Poi in mezzo c’è il Pulcinella del Teatro della Commedia dell’Arte quindi quello legato ai canovacci, alle convenzioni del teatro diciamo professionale. Infine un terzo piano, più popolare, che è quello della figura di Pulcinella nei Carnevali popolari, cioè quello della Zeza di Montemarano, quello della lamentazione di carnevale, il pulcinella contadino. Sono tre piani che camminano insieme per raccontare questa maschera estremamente complessa e articolata. In scena la compagnia “Gli Alberi di Canto” con il gruppo di laboratorio vocale permanente “La Corale per San Giovanni”. Segnaliamo poi, nella programmazione dei prossimi appuntamenti, la messa in scena di due grandi autori Testori, con “Interrogatorio a Maria” per la regia di Fabio Di Gesto, 29 febbraio e 1 marzo, e “I sette vizi capitali” di Kurt Weill con testo di Brecht, il 12 marzo.