“Tebas Land”: chi è il parricida?

RECENSIONE “Tebas Land” è uno spettacolo che ti resta dentro per giorni, una visita ad una terra oscura ed incomprensibile che riesce a scavarti dentro e lasciarti numerosi interrogativi. Un testo spiazzante ed una costruzione di spettacolo avviluppante, in dinamiche che si montano e smontano dinanzi agli occhi degli spettatori. Finzione e realtà talmente intrecciate da insinuare, nel cuore di chi segue, la sensazione che di ogni dato ci sia sempre di più. Che tutto ha la sua superficie ed il suo fondo, in una realtà a più facce. Questo spettacolo riesce a fondere l’emozione e la passionalità del racconto di una terribile tragedia familiare con la lucidità e l’astrazione di un’acuta riflessione sul linguaggio e la comunicazione teatrale. Il tema centrale è la figura reale, letteraria, mitologica e psicoanalitica del parricida. Il titolo è infatti ispirato al più mitologico parricida della storia, il re di Tebe, Edipo. Ma chi è davvero il parricida?

All’ingresso nella sala teatrale, il pubblico viene accolto da un individuo che espone quella che sembra essere una comunicazione di servizio: «Questa storia racconta di un detenuto che ha bisogno di guardie carcerarie per parlare». Sul palcoscenico, in una gabbia alta tre metri, è posto un giovane ragazzo, il reale parricida, che ha avuto concessione di essere presente quella sera sul palco grazie ad un progetto avviato in carcere ed approvato dal Ministero. Il pubblico viene posto in una condizione emotiva per cui non sa se essere spaventato da quella comunicazione di possibile pericolo, rassicurato da quella gabbia che tiene comunque lontano, o incuriosito e scettico guardandolo così indifeso. Nessuno ascolterebbe quel ragazzo, quella storia. La società, sempre più spesso assuefatta a notizie violente, condanna e non si preoccupa di sapere il seguito. Di un ragazzo bloccato nel tempo, in una cella che limita i movimenti e atrofizza il corpo e l’anima, costretto a rivivere innumerevoli volte pochi secondi di esistenza all’infinito. Perdendo la ragione in quella landa desolata.  Quando ha fallito realmente la società? Quando quel ragazzo si è sentito per la prima volta solo? Senza futuro e senza speranza, troppo stretto in un presente ostile e preminente rispetto a qualsiasi altro possibile futuro favorevole.

L’approdo in Italia di questo testo è stato possibile grazie al teatro fiorentino di Rifredi che da alcuni anni svolge un puntuale lavoro di valorizzazione di autori internazionali ancora poco conosciuti. L’autore di questo testo è Sergio Blanco, drammaturgo e regista di origini uruguaiane, ben rappresentato e apprezzato in tutto il mondo e qui ancora quasi sconosciuto. La compagnia toscana Pupi e Fresedde, nell’adattamento del regista Angelo Savelli, che ne ha curato anche la traduzione, l’ha presentato a Napoli in scena, unicamente al Nuovo Teatro Sanità, dall’1 al 3 novembre.

Sul palcoscenico due sensazionali attori: Ciro Masella, nelle vesti dello scrittore-regista che approfondisce la tragica storia del parricida intervistandolo in carcere, molto bravo a inscenare i diversi registri di recitazione; e l’attore Samuele Picchi, bravissimo a destreggiarsi nel doppio ruolo. Il primario di parricida ed il secondario, nel cambio scena, nelle vesti dell’attore che deve fingere di esserlo, imparare ad esserlo, quasi scivolando in un io indistinto che non permetterà sempre facilmente di discernere tra interprete e personaggio, così come prevede la poetica dell’autore. Impressionante e degna di nota, la scena di flashback di ricostruzione della scena del crimine da parte del parricida, costretto a ripercorrere ogni passo, paradossalmente come in una finzione teatrale. Sul palco, insieme a loro due, anche la guardia carceraria-figurante Pietro Grossi.

Intenso è il rapporto che si viene a creare tra lo scrittore ed il giovane ragazzo. Inizialmente timoroso dell’intimità, al punto da scuotersi, non appena considerato come una persona comune, con frasi tipo «Ma tu sai perché sono qui? Lo vuoi capire che ho ammazzato mio padre si o no?». Poi sempre più fiducioso, anche in se stesso, dopo la scoperta che la vita non era in fondo finita, e che l’anima può risollevarsi ascoltando musica e assaporando numerose letture. Tenerissima la scena, che può essere vista come un riferimento alla volpe de “Il Piccolo Principe” di Antoine Saint Exupery, in cui affacciandosi tra le sbarre il protagonista esclama «Voglio sapere se ti devo aspettare».

Molte sono le tematiche contenute in questo spettacolo: in primis una condanna ad una società ipocrita ed una denuncia al sistema carcerario che non permette una reale comunicazione con entità esterne che si offrono di adempiere alla funzione rieducativa del carcere. In secondo luogo incisive riflessioni sulla comunicazione e sulla scrittura di testi teatrali, che in questo caso spettacolo hanno visto l’intrecciarsi di miti con letteratura, psicologia ed immaginazione adoperando materiali molto diversi e riferimenti che hanno portato a citazioni di Sofocle, Pirandello, Freud, Genet, Dostoevskij, Kafka e Leopardi, conditi dalla musica di Mozart, Mannoia e gli U2. Un mix che ha sicuramente spiazzato ed ammaliato il pubblico fino alla chiusura di scena, che ha visto, nei saluti finali della prima, anche la gradita presenza del regista. Non ci resta che ringraziare, della preziosa opportunità, offerta dalla programmazione del Nuovo Teatro Sanità, di assistere a questo spettacolo, sperando nella riproposizione di lavori di questa compagnia a Napoli.