“Si nota all’imbrunire”: dialoghi impossibili in un paese spopolato

NAPOLI – Quali sono i meccanismi per cui in famiglia si parla sempre meno? Riusciamo ad individuare quelle parole o azioni che scagliate contro le pareti dell’anima formano crepe talmente profonde da renderci, col tempo, estranei i nostri stessi familiari? Come accade che la voglia di comunicare e la curiosità di approfondire, d’un tratto, finiscano con lo spegnersi? Lasciando isolati corpi che potrebbero invece ricomporsi in un abbraccio. Lucia Calamaro, affermata regista vincitrice di tre premi UBU, ha costruito lo spettacolo “Si nota all’imbrunire (Solitudine di un paese spopolato)” dal successo meritatissimo, trattando un tema molto attuale, recentemente definito dalla socio-psicologia “solitudine sociale”. E’ un paradosso pensare che in questa società contemporanea iperconnessa, sia proprio l’interdipendenza ad essere venuta a mancare. Ognuno chiuso in sè stesso, focalizzato sulle proprie personali spesso vane battaglie, manchevoli di non riconoscere più nell’altro una chiave per comprendere il proprio “io” ed il mondo reale. Protagonista di questa storia uno straordinario Silvio Orlando che offre al pubblico un’interpretazione magistrale, nella sua mimica essenziale ma efficace. In scena un burbero uomo complesso teneramente ironico che si è posto volontariamente in esilio in un paesino di quattordici anime dopo la morte della moglie. Trascorre le sue giornate ascoltando musica classica, leggendo libri e guardando vecchi film western. Stando solo ha sviluppato una sorta di insofferenza verso qualsiasi cosa, mista ad una profonda pigrizia che gli ha mozzato il desiderio di interagire con il mondo, e l’ha portato alla convinzione che la cosa migliore fosse restare seduto a capo chino.

«Mi mancano i miei figli. Perchè quando li rivedo, li tratto così male? Non li sento da mesi, non li chiamo. Ci sentiamo solo per cose tecniche pratiche dozzinali.»

In questa vita solitaria irrompono improvvisamente i tre figli ed il fratello, giunti per il suo compleanno e la messa di commemorazione della moglie, portando con sé le loro fobie e i loro desideri. L’intento comune è quello di smuovere il padre dall’apatia ma sono tutti talmente concentrati su loro stessi da non rendersi neanche conto della sua faticosa scelta. Immensi gli attori che affiancano Silvio Orlando: un brillante Riccardo Goretti nelle vesti del figlio emotivamente in stallo senza amore né lavoro, una lunatica Alice Redini, figlia che vorrebbe diventare famosa come poetessa senza effettivo talento, un’intensa Maria Laura Rondanini (nella vita reale moglie di Silvio Orlando) nelle vesti della nevrotica figlia maggiore alla ricerca di affermazione nel suo lavoro consumata da un marito assente, ed infine un Roberto Nobile, fratello del protagonista, premuroso quanto eclettico dottore in pensione. Il padre impietosamente giudica di continuo i propri figli, incapace di vivere con loro e di accettarli per quello che sono. Li guarda nelle loro autoanalisi sterili: chi ossessivo compulsivo, chi bulimico, chi ipocondriaco. Deluso dalla loro mancanza di praticità. Nel corso dello spettacolo assistiamo ai numerosi goffi tentativi di giungere al cuore del burbero isolato. L’evidente fulcro di tutti i dialoghi è la difficoltà nella comunicazione. Non c’è comprensione. Lo stesso protagonista esclama «Sono così diversi dai miei figli di allora. Nessuno può fare il genitore dei figli grandi. Chi sono questi figli? Chi li conosce? Di chi è la colpa? Cosa resta se non una logora e snervante confidenza? Che però, tutto sommato, fa schifo.»

All’improvviso si apprende che, questo continuo creare e disfare di pensieri, tra momenti di “poesia alata” e di “sonora realtà”, si sospende. Il desiderio iniziale, formulato da Silvio, di rivedere i suoi cari, allo stesso tempo continuamente respinto dal “cane da guardia rabbioso” che risiede agli angoli del suo cuore, in realtà non si è mai realizzato. Tutte le dinamiche presentate allo spettatore avevano fluttuato silentemente in un sogno profondo ed allora anche i colori pastello della scenografia surreale e dinamica di Roberto Crea acquistano d’un tratto maggiore significato. Il finale ridesta lo spettatore che si è lasciato trasportare dall’ingegnoso filo narrativo della Calamaro. Come, sempre più spesso, accade nella realtà, l’uomo solitario non è stato mai raggiunto dai suoi figli. Una finestra si apre su riflessioni interiori del protagonista che si svela finalmente spezzato, nel profondo, dalla sofferenza causata dalla perdita della moglie, la persona a cui aveva permesso di entrare in quel paese ora desolato, dove ogni tanto arriva un alieno. Ritrovandosi demoralizzato dal guardare fuori un mondo in cui lei non c’è.

Lo spettacolo sarà in scena al Teatro Bellini fino a domenica 12 maggio, da non perdere. In una nota la regista comunica la sua speranza: «Insieme ci piace pensare che gli spettatori grazie a uno smottamento dell’animo dovuto speriamo a questo spettacolo, magari la sera stessa all’uscita, o magari l’indomani, chiameranno di nuovo quel padre, quella madre, quel fratello, lontano parente o amico ormai isolatosi e lo andranno a trovare, per farlo uscire di casa. O per fargli solamente un po’ di compagnia. »