Napoli è una città che ha la virtù di nascondersi costantemente a se stessa. Si perde il conto delle volte in cui, camminando per una qualsiasi strada del centro, si resta improvvisamente colpiti per uno scorcio, un palazzo o una chiesa di cui non si era a conoscenza. Ciò accade anche nei luoghi più insospettabili della città, oggetti di quel flusso turistico che negli ultimi anni sembra essere esponenzialmente aumentato. A molti di noi, per esempio, sarà capitato di camminare lungo la centralissima via Pessina, lì dove a pochi passi dal Museo Archeologico Nazionale sorge quel gioiello dimenticato della Galleria Principe di Napoli. Ebbene, sul marciapiede di fronte la Galleria, frequentato da migliaia di persone ogni giorno, vi sono delle scale costruite nel 1867, in piena età postunitaria, che talvolta capita di affiancare nella generale indifferenza, senza accorgersi della loro presenza. Il salirle conduce in uno di quei luoghi sconosciuti di cui sopra: la seicentesca Chiesa di San Potito. Al suo interno opere di Luca Giordano, Niccolò de Simone e Andrea Vaccaro, oltre ad un meraviglioso altare settecentesco. Nonostante il suo pregevole valore artistico, la chiesa è rimasta chiusa per ben 37 anni, dal terremoto dell’Irpinia al 2017, quando è stata riaperta da Carlo Morelli, direttore del Coro Giovanile del Teatro di San Carlo e presidente dell’associazione musicale e culturale Ad Alta Voce. San Potito rinasce oggi grazie ad uno spettacolo innovativo: “That’s Napoli Live Show”, nel corso del quale un coro di 22 giovani napoletani, accompagnati da un pianista, un batterista, un bassista e un chitarrista diretti da Morelli, propongono un format musicale all’insegna della commistione di generi e di tradizioni solo apparentemente distanti. Così, “‘O Sarracino”, “O surdato ’nnammurato”, “Tu vuò fa’ l’americano”, “Tammurriata nera” e “‘A rumba d”e scugnizze” si incontrano in una perfetta intesa musicale – dunque anche culturale – con hit pop di artisti del calibro dei Queen, Police, Survivor, Gloria Gaynor e Buggles al fine di rivelare allo spettatore l’universalità melodica della canzone napoletana. “That’s Napoli Live Show” nasce con uno scopo preciso: imporsi come lo spettacolo di riferimento per i turisti, al fine di offrire ai visitatori un prezioso assaggio della tradizione musicale partenopea. Venerdì 23 novembre, noi di Napoli a Teatro, siamo stati amabilmente accolti da Carlo Morelli ad assistere allo spettacolo. Per l’occasione, ci ha concesso un’amabilissima intervista nel corso della quale argomenti come musica, cultura, stampa, l’agorà e l’akropolis di Partenope sono stati toccati alla luce di un unico e fondamentale fil rouge: l’amore per Napoli – detto senza quella patetica retorica che da troppo tempo sembra essersi impossessata di tale (nobilissimo) sentimento.
“That’s Napoli Live Show” nasce con un obiettivo preciso: diventare lo spettacolo di riferimento dei turisti a Napoli, sul modello di Broadway. Cosa l’ha spinta a portare all’ombra del Vesuvio un progetto così ambizioso?
«Parto da un presupposto: Napoli è stata la capitale della cultura nel ‘700. Sin dal ‘500, con la nascita dei conservatori, abbiamo formato fior fiori di musicisti e dal ‘700 in poi fino a metà ‘800 abbiamo militarizzato e assediato le corti d’Europa. Napoli ha espresso la cultura. Insegnavamo la musica agli altri, abbiamo alfabetizzato il linguaggio musicale e, soprattutto, siamo depositari di un patrimonio culturale immenso: la canzone napoletana. Forse non c’è un patrimonio popolare così importante che possa arrivare a otto secoli di storia. Detto ciò, lo spettacolo nasce proprio in virtù di questo importante sciame turistico, che sta finalmente arrivando a Napoli e che sta riscoprendo una città di cultura e di grande tradizione. Sappiamo che il turismo richiede uno spettacolo e che necessita di conoscere una Napoli rappresentata in un certo modo. La Napoli che rappresento guarda ovviamente alla canzone napoletana, ma siccome molti dei ragazzi oggi amano in particolar modo, come me, la musica inglese e americana, devo dire che si sta perdendo, proprio geneticamente, il modo di cantare la canzone napoletana. Su quaranta persone, due hanno una voce popolana e popolare, gli altri, invece, quando cantano ammiccano molto e fanno delle fioriture che non sono più mediterranee ma molto più americane.»
Lo show è costituto da ben 16 brani, nati dall’incontro della canzone napoletana con alcune celebri hit pop degli ultimi decenni. Potrebbe spiegarci la scelta di questi brani? E, soprattutto, quanto si è divertito nella messa in opera di tale commistione di generi solo apparentemente diversi?
«Parto da quest’ultima domanda: io mi diverto moltissimo, guai se non mi divertissi, guai se non avessi passione, guai se salissi sul palcoscenico con il magone o con tristezza, dovrei cambiare lavoro! La musica per definizione ti rende migliore, ti rende allegro, ha una funzione terapeutica sull’individuo e butta via tutte le scorie.. »
…è catartica
«Catartica, esattamente. Detto questo, la scelta dei brani è stata oculata, ho studiato bene le armonie dei brani sui quali costruire e innestare le canzoni napoletane. Ad esempio, “Eye of the tiger”, un brano importantissimo e conosciutissimo con un riff di chitarra potente, l’ho innestato su “Tammurriata nera”, perché le armonie sono quasi simili, concordi. E così ho fatto con il brano “I will survive” di Gloria Gaynor aggiungendoci “’O Sarracino”. Ma un’altra chicca, quella che ha fatto impazzire Milly Carlucci nel 2010 in un programma che feci in televisione (“24mila voci”, n.d.A.) è questo mio mix di “’O surdato ‘nnammurato”, “Roxanne” dei Police e “Video killed the radio star” (dei Buggles, n.d.A.) dove su “star” ci attacco “…staje luntana da stu core”. E’ una “mazzaria” che mi è venuta, che però è efficace e devo dire che dovunque andiamo è potentissima. Poi, fondamentalmente, io penso che tutti noi siamo soldati innamorati della nostra città. Siamo soldati perché ogni giorno combattiamo e siamo innamorati, perché se non fossimo innamorati come soldati, andremo altrove.»
Come definirebbe il concetto di “pop”? Ritiene possa esserci una differenza tra il “pop di qualità”, come quello di Michael Jackson, e il pop concepito per fini esclusivamente commerciali?
«Sicuramente quando parliamo di pop parliamo ovviamente di Michael Jackson, di Beyoncé, ovvero della possibilità di estendere la cultura musicale, di renderla fruibile a tutti. Un concetto alla Andy Warhol: rendere la musica quanto più estesa e allargata. Questo è il pop al quale guardo. C’è molto di Michael Jackson anche nelle cose che facciamo. E poi, cosa c’è di più popolare della canzone napoletana? Ovunque vai, in qualsiasi posto del mondo, se sei napoletano, ti cantano la canzone napoletana. Sembra forse che ancor prima dei grandi gruppi e ancor prima della nascita del pop, probabilmente siamo stati proprio noi a inventare la musica pop e a renderla popolare, perché era diffusa in tutti i quartieri e l’abbiamo portata in tutto il mondo. Più pop di noi, forse, non c’è nessuno.»
Oggi si sente molto parlare di un’eventuale rinascita della cultura napoletana. Da musicista e non solo, percepisce davvero tale rinascita o la considera qualcosa di meramente “presunta” e “proclamata”, ma che a livello qualitativo, probabilmente, stenta ancora a venire?
«Questa è una domanda molto difficile che tra l’altro dovrebbe avere una scansione anche differenziata. Sicuramente c’è una rinascita, questa rinascita però non invade tutti i campi della cultura. C’è una rinascita soprattutto dal basso, c’è una Napoli che vuole rinascere, che vuole “jammare” nuovamente e che si fa portavoce di alcune istanze delle periferie. Cioè, paradossalmente, laddove la borghesia colta dovrebbe esprimere una avanguardia culturale – pensiamo ad esempio al Rinascimento, il fenomeno di una borghesia colta che esprime una guardia culturale, che vuole trarre profitto sul piano economico ma anche invadere i campi della cultura – questa avanguardia non si verifica. Mi dispiace dirlo, ma nella nostra Napoli c’è una borghesia molto gretta. E’ poco attenta, paradossalmente, a certe dinamiche, anzi, vuole vedere rappresentata sempre se stessa e quando si vuole vedere rappresentata, si vede ben collocata nell’800. Faccio un esempio: prendiamo in considerazione il San Carlo, il pubblico ama “La Traviata” perché è una storia d’amore, la storia di una ragazza che vende se stessa, molto simile alle cose che facciamo oggi. Se tu invece porti un tema completamente diverso, che non è un tema della borghesia napoletana, ad esempio ricontestualizzare un’opera lirica, questa non viene amata. Cerchi di portare la musica del ‘900? Non viene amata. Paradossalmente, invece, dalle periferia nasce, attraverso i murales, attraverso un’espressione pittorica o attraverso un’espressione colorita come il rap, un linguaggio completamente diverso che è un linguaggio attuale. E’ come se Napoli viaggiasse a due velocità: il treno ad alta velocità viaggia a 5km all’ora mentre l’espresso, al contrario, si fa locomotiva di determinate cose. Questa è una città dei grandi paradossi che ha una sua acropoli e una sua agorà. Ma l’agorà, la piazza del mercato, sta scalzando l’acropoli, perché l’acropoli non è più rappresentativa di una cultura. L’agorà ha praticamente avocato a se stesso il potere culturale di una città.»
A proposito dell’acropoli, molti napoletani non sanno che i reperti dell’antica akropolis di Neapolis sono visibili nel sito archeologico della chiesa di Sant’Agnello Maggiore a Caponapoli, che però è aperta solo alcuni giorni della settimana. Rimanendo in tema dei beni monumentali dimenticati della nostra città, la Chiesa di San Potito è stata chiusa dal 1980 fino al 2017. Nel solo centro storico, oltre 200 chiese sono ancora chiuse e in attesa di un riutilizzo. Ritiene che una finalità culturale, come quella da lei proposta per San Potito, debba considerarsi la finalità primaria per una rinascita delle altre chiese di Napoli?
«Con molta sincerità e forse, talvolta, anche con un briciolo minimo di presunzione, devo dire che quello che sta succedendo a San Potito dovrebbe essere raccontato in maniera più diffusa. Perché è vero che c’è Carlo Morelli, ma c’è soprattutto un gruppo di ragazzi e di talenti che si sono messi insieme, lavorando dall’inizio. Parlo di ragazzi che hanno pulito la chiesa, dipinto le mura di San Potito e che ogni giorno fanno un lavoro di grande sensibilità e di grande lavoro sociale. Sicuramente può essere un modello culturale, un modello di comportamento, una “best practice” per la rinascita di tutti gli altri siti monumentali, sterminati e diffusi, della nostra città. E’ chiaro, però, che quando prendi un luogo del genere devi necessariamente avere un progetto culturale. Se il progetto culturale non ce l’hai e soprattutto se non hai le risorse che credono nel progetto culturale e che sono in grado di materializzarlo, tutto questo diventa soltanto un “vous parlez”. E’ paradossale, però, che in una città dove una chiesa chiusa dal 1980 riapre i battenti e restituisce un bene così importante alla cittadinanza, debba ancora vedere un’attenzione da parte della stampa locale. Noi stiamo dando lavoro a trenta ragazzi, si può dire che trenta ragazzi possono vivere di musica, in una città che per definizione dovrebbe vivere di musica e dovrebbe distribuire lavoro. Eppure, in questa nostra Napoli i grandi teatri accolgono produzioni che non sono fatte da napoletani. Che venga il musical “The Phantom of the Opera”, “Cats”o i “Momix”, la maggior parte delle produzioni, dei cantanti e dei ballerini sono tutti stranieri. Chapeau, ci mancherebbe altro. Però, perché negli altri teatri c’è una produzione locale e un’attenzione alle forze e alle risorse del territorio? Perché ci sono produzioni a Milano, Roma, Treviso, Padova mentre a Napoli non accade? Perché i teatri tutti non sono attenti alle necessità di una città? Quali sono queste necessità? Innanzitutto dare lavoro e poi raccogliere i talenti e farli crescere nel tempo. Faccio un esempio, la Scala ha una sua scuola, il San Carlo ancora non ce l’ha. Probabilmente se vai a Milano, studi con Riccardo Muti. Un’altra cosa, noi come Coro Giovanile siamo andati a Nisida 30 volte, in maniera silente, a lavorare con i ragazzi del carcere minorile: nessuno ne ha parlato. Ovviamente, oggi a Nisida ci va Riccardo Muti e tutti ne parlano, perché è chiaro che da un punto di vista di stampa il grande Muti fa notizia. Però, dovrebbe far molta notizia che c’è una Napoli bella che si mette al lavoro per far crescere quella Napoli di cui, invece, tutti ne parlano male. Perché si parla della Napoli deteriore e non si parla di una Napoli bella? MSC è un altro esempio. Dà lavoro forse ad oltre 100mila persone di cui vedi quanti napoletani ci sono. Un’azienda che fa mediamente 35 miliardi di fatturato all’anno, ed è napoletana: nessuno ne parla. Però, si parla di Gomorra. Questo è il nostro dramma.»
Progetti per il futuro?
«San Potito, senza dubbio, deve diventare un centro di grande formazione musicale, delle arti e dei mestieri. Deve diventare una vera e propria palestra dove tutti coloro i quali vogliono pensare a lavorare nello spettacolo possono venire qui a farlo. Mi riferisco agli abiti da cucire, alle luci, alla fonica, al marketing, alla sceneggiatura, alla scrittura creativa, al canto: tutto quello che costituisce la palestra dell’industria dello spettacolo ci piacerebbe farlo qui come fondazione. Abbiamo tutte le risorse e le professionalità per poterlo fare. E poi, far conoscere questi ragazzi napoletani e li chiamo ragazzi in senso affettuoso, perché mi sento un poco più grande di loro, ma non sono ragazzi come li intendiamo oggi, “i guaglioni di Napoli”. Non sono “guaglioni”, sono professionisti super preparati che quando vanno in palcoscenico sanno cosa fanno. E mi auguro veramente che San Potito possa dar loro tanta fortuna. Adesso i ragazzi sono ospiti del programma di Renzo Arbore (“Guarda… Stupisci”, n.d.A.). Mi auguro davvero che la politica ci possa essere accanto in questo percorso di professionalità, di formazione e di spettacolo.»
Per informazioni sui prossimi appuntamenti di “That’s Napoli Live Show” consultare il sito.