“Autobahn”: le autostrade di LaBute e Postiglione in scena al Ridotto del Mercadante

«Continuiamo a fare cose malvagie, tutte malvagità da cui non riusciamo a scappare, è un sentimento di tutta la nazione come una malattia che dice che non stiamo andando verso nulla di buono». E’ con queste parole che la splendida Anna Ammirati introduce “Autobahn” di Neil LaBute nella regia di Alfonso Postiglione, in scena fino al 18 novembre al Ridotto del Mercadante. Assieme a lei Gianluca Musiu, Clara Bocchino, Alessandro Balletta, Manuele D’Errico e Fortuna Liguori. L’incipit d’apertura conduce immediatamente lo spettatore entro l’orizzonte drammaturgico della pièce: uno sguardo sulle malvagità della nostra epoca, che non offre tregua nè conforto alcuno – e perché dovrebbe, d’altronde?

“Autobahn” è un’opera spericolata, scandita da sette atti indipendenti, accomunati da un unico elemento: una macchina, che non porta da nessuna parte. Oggetto particolare, la macchina, quel parallelepipedo di metallo e gomma che si muove nel mondo, pur rimanendone adeguatamente a distanza di sicurezza. Una monade mobile che, proprio come nelle autostrade tedesche prive di limiti di velocità (le autobahns, appunto) resta tenacemente chiusa nella propria direzione, separata dalla realtà che la circonda. Un’entità distaccata, quindi, all’interno della quale i sei attori danno vita alla tragica rappresentazione del solipsismo imperversante della nostra epoca.

“Autobahn” è il tripudio degli escamotages ai quali gli uomini ricorrono nei momenti in cui il linguaggio giunge alla sua massima tensione e la possibilità di una comprensione reciproca viene meno. La drammaturgia di LaBute gioca sulle possibilità di trazione e distorsione del linguaggio, di quella esigenza espressiva le cui regole sono sì comuni, ma che pure possono essere alterate all’occorrenza da un dato individuo, ottenendo, per ogni parola, un senso ed un peso che l’interlocutore potrebbe anche non comprendere. La pièce radicalizza fino all’iperbole tale possibilità, sino a rivelare la meschinità di un linguaggio, trasformatosi nel mentre in espediente dialettico, la cui macchinosità non ha altro scopo che nascondere l’inadeguatezza dell’uomo nel rivelare alcunché di essenziale a riguardo delle proprie scelte. “Autobahn”, pertanto, è una rappresentazione patetica e lo è senza mezza termini – e non c’è bisogno, in tal caso, di scomodare il “pathos” inteso in senso greco.

Così, lo spettatore si ritrova ad assistere ad una scena in macchina, all’interno della quale una giovane ragazza appena uscita da un centro di recupero per tossicodipendenti comunica alla madre che riprenderà a farsi appena possibile, provocando nella genitrice il bisogno di metter fine alla conversazione con un incidente suicida; un uomo che dà della “puttana” alla compagna incinta, lasciandola sola nella sua vettura in preda alle doglie; un adulto che scappa in macchina con la compagna minorenne per chissà quali lidi, nella funesta esitazione di entrambi, consapevoli che non vi sarà mai alcun lido felice; una donna che cerca di raccontare al compagno di aver trascorso la notte con due (o forse più) uomini solo per aver bevuto un bicchiere di troppo nel corso di una noiosa conferenza; due giovani per il quale un videogioco ha più rilevanza morale della fine di una storia d’amore; un appuntamento idealmente romantico tra due giovani che si trasforma in una imperdibile occasione per far emergere distanze che sfociano poi in perfidie e crudeltà.

Convince “quasi” tutto di questa pièce: la scenografia dal tocco industrial, la scelta delle musiche (Marilyn Manson, Deep Purple, Nikka Costa, Beatles e Kraftwerk) e la grandissima prova di recitazione di tutti e sei gli attori, bravissimi nel dare voce alla torsione del linguaggio di cui sopra. Il pubblico applaude sinceramente per l’ottima messa in scena, nonostante il didascalico elenco di meschinità (legato a quel “quasi”) che rischia forse, pur consapevolmente, di non rimandare a “qualcosa d’altro” rispetto a quanto narrato nei sei atti di patimenti. La pièce infatti, nell’urgenza di narrare la miseria dell’incomunicabilità tra gli individui, con dialoghi che alla lunga appaiono forse troppo insistenti, sembra smarrire la necessità di offrire un’esperienza estetica compiuta che possa concedere, di tale incomunicabilità, una prospettiva più elevata.