Da sabato 12 gennaio 2019, Teatro Nuovo di Napoli Kohlass e Corpo di Stato di Marco Baliani

Da sabato 12 gennaio 2019, Teatro Nuovo di Napoli

Kohlass e Corpo di Stato di Marco Baliani 

Il teatro di narrazione dell’artista piemontese, torna sul palcoscenico partenopeo con due allestimenti in successione e un incontro aperto

La voce si fa racconto e trasporta visioni, l’elemento visivo fa da contrappeso a quello verbale, in un solido equilibrio. E’ questo il cuore dell’arte del buon narratore, e il luogo dove si giocano l’abilità e la pratica, ormai, trentennale di Marco Baliani, che porta in scena sul palcoscenico del Teatro Nuovo di Napoli due spettacoli in successione: Kohlass, in scena sabato 12 e domenica 13 gennaio, e Corpo di Stato, in scena da mercoledì 16 a domenica 20 gennaio.

Sempre al Teatro Nuovo, martedì 15 gennaio alle ore 17.30, Baliani terrà un incontro aperto con il pubblico, dal chiaro titolo Sul filo della narrazione.

Gli spettacoli di Marco Baliani sono soliti tracciare storie che hanno al centro il bisogno insaziabile, nell’uomo, di “un posto nel mondo dove sentirsi nel giusto, nel diritto”, proprio secondo le parole di Michele Kohlhaas. La forza interiore, quella di sfidare il destino, la paura e la vita, diventano elementi fondamentali delle scelte personali e del percorso di ognuno.

Kohlhaas è lo spettacolo che ha inaugurato un nuovo modo di fare teatro in Italia, e che ha dato il via alla grande stagione del teatro di narrazione. Uno spettacolo che, però, riprende una tradizione antica, quella del racconto orale.

La storia di Kohlhaas è un fatto di cronaca realmente accaduto nella Germania del 1500, scritto da Heinrich von Kleist in pagine memorabili. E’ la vicenda di un sopruso che, non risolto attraverso le vie del diritto, genera una spirale di violenze sempre più incontrollabili, ma sempre in nome di un ideale di giustizia naturale e terrena, fino a che il conflitto generatore dell’intera vicenda non si risolve tragicamente, lasciando intorno alla figura del protagonista un’ambigua aura di possibile eroe del suo tempo.

Dopo aver visto e ascoltato Kohlhaas, si potranno meglio comprendere le ragioni di Corpo di Stato. Il delitto Moro: una generazione divisa e il filo che li lega – come rimarca Baliani in una nota – poiché il tessuto è lo stesso: il rapporto conflittuale tra esigenza di rivolta contro l’ingiustizia e assunzione del ruolo di giustiziere. 

Questa volta, però, non siamo nella Germania del 1500, ma nel nostro passato prossimo. È sempre difficile raccontare qualcosa che è così vicino a noi, specie se quel qualcosa ha inciso profondamente sulle nostre esistenze e sulle nostre scelte. La materia è ancora così pulsante e non dipanata dalla lontananza, che si rischia allora di leggerla col senno di poi, filtrandola e mettendola a distanza di sicurezza. 

Nei cinquantacinque giorni della prigionia di Moro, Marco Baliani racconta di una lacerazione, di come il tema della violenza rivoluzionaria abbia dovuto fare i conti con un corpo prigioniero, e come questa immagine, divenuta spartiacque per scelte fino a quel momento rimandate, abbia fatto nascere domande e conflitti interiori non più risolvibili con slogan o con pratiche ideologiche. 

Kohlass e Corpo di Stato di Marco Baliani @ Napoli, Teatro Nuovo 

Kohlass  ore 21.00 (sabato), ore 18.30 (domenica) 

Corpo di stato ore 21.00 (mercoledì e giovedì), ore 18.30 (venerdì e domenica), ore 19.00 (sabato) 

Info e prenotazioni al numero 0814976267 email  botteghino@teatronuovonapoli.it 

Sabato 12 e domenica 13 gennaio 2019

Trickster Teatro

presenta

Kohlass

di Marco Baliani e Remo Rostagno

dal racconto Michele Kohlhaas di Heinrich von Kleist

attore narrante Marco Baliani

regia Maria Maglietta

La storia di Kohlhaas è un fatto di cronaca realmente accaduto nella Germania del 1500, scritto da Heinrich von Kleist in pagine memorabili. Nel mio racconto orale è come se avessi aggiunto allo scheletro osseo riconoscibile della struttura del racconto di Kleist, nervi muscoli e pelle che provengono non più dall’autore originario ma dalla mia esperienza, teatrale e narrativa, dal mio mondo di visioni e di poetica.

Così ad esempio tutta la metafora sul cerchio del cuore paragonato al cerchio del recinto dei cavalli, che torna più volte nella narrazione, come luogo simbolico di un senso della giustizia umanissimo e concreto, è una mia invenzione, nel senso etimologico del termine, qualcosa che ho trovato a forza di cercare una mia adesione al racconto di Kleist.

Così via via il testo originale si è come andato perdendo e ne nasceva un altro, un work in progress alla prova di spettatori sempre diversi, anno dopo anno, in spazi teatrali e non, secondo un procedimento di crescita che ai miei occhi appare come qualcosa di organico, come mi si formasse tra le mani un organismo vivente sempre più ricco e differenziato.

Accade nell’arte del racconto orale che per cercare personaggi interiori occorra compiere lunghi percorsi, passare attraverso storie di altre storie, sentirsi stranieri in questo mondo dopo aver tanto peregrinato, fino a trovare quel punto incandescente capace di generare a sua volta nell’ascoltatore un mondo di visioni, non necessariamente coincidenti con le mie.

L’arte sta nel non nominare troppo, nel cogliere il cuore di un’esperienza con pochi tratti lasciando molto in ombra, molto ancora da compiersi.

Kohlhaas è la storia di un sopruso che, non risolto attraverso le vie del diritto, genera una spirale di violenze sempre più incontrollabili, ma sempre in nome di un ideale di giustizia naturale e terrena, fino a che il conflitto generatore dell’intera vicenda, cos’è la giustizia e fino a che punto in nome della giustizia si può diventare giustizieri, non si risolve tragicamente lasciando intorno alla figura del protagonista una ambigua aura di possibile eroe del suo tempo.

Le domande morali che la vicenda solleva e lascia sospese, mi sembrarono, quando comincia ad affrontare l’impresa memorabile del racconto, un modo per parlare degli anni ’70, per parlare di quei conflitti in cui venne a trovarsi la mia generazione, quella del ’68, quando in nome di un superiore ideale di giustizia sociale si arrivò a insanguinare piazze e città.

In fondo, a voler rivedere all’indietro il mio percorso artistico, senza Kohlhaas non sarei arrivato a raccontare Corpo di Stato, racconto teatrale andato in onda in diretta televisiva la notte del 9 maggio, vent’anni dopo la morte di Moro, a poter ritrovare i medesimi conflitti, riuscendo questa volta a parlarne dall’interno, come soggetto coinvolto nei fatti narrati.

Un tema antico dunque, tragico nella tradizione e nella forma, che continua a catturarmi, perché il narratore non può che narrare ciò che epicamente lo coinvolge nell’intera sua persona, a me succede così: non potrei raccontare qualsiasi cosa.

 

Da mercoledì 16 a domenica 20 gennaio 2019

Casa degli Alfieri, Trickster Teatro

presentano

Corpo di Stato

Il delitto Moro: una generazione divisa

di e con Marco Baliani

regia Maria Maglietta

collaborazione drammaturgica Alessandra Rossi Ghiglione

montaggio video Michele Buri

ricerca iconografica Eugenio Barbera

produttore esecutivo Maurizio Agostinetto

direzione tecnica Massimo Colaianni

Quanto a lui, bisognava che l’ascoltassero perché credesse alla propria vita. 

                                                                                                            

Chi ha visto e ascoltato un’altra mia narrazione, il Kohlhaas tratto da Kleist, potrà meglio comprendere le ragioni di questo Corpo di Stato e il filo che li lega, poiché il tessuto è lo stesso: il rapporto conflittuale tra esigenza di rivolta contro l’ingiustizia e assunzione del ruolo di giustiziere. 

Ma questa volta non siamo nella Germani del 1500, ma nel nostro passato prossimo, solo quarant’anni fa. È sempre difficile raccontare qualcosa che ci è tanto vicino, specie se quel qualcosa ha inciso profondamente sulle nostre esistenze e sulle nostre scelte. 

La materia è ancora così pulsante e non dipanata dalla lontananza, che si rischia allora di leggerla col senno di poi, filtrandola e mettendola a distanza di sicurezza. 

Ho cercato allora di ritornare laggiù, in prima persona, ricordandomi di me in quei giorni, trovando nelle mie esperienze di allora quelle “piccole storie” che sole possono tentare di illuminare la Storia più grande. Ho ripercorso momenti dolorosi senza perdere però le atmosfere di quegli anni, gli entusiasmi, i paesaggi metropolitani, le contraddizioni. 

Nei 55 giorni della prigionia di Moro ho raccontato di una lacerazione, di come il tema della violenza rivoluzionaria abbia dovuto fare i conti con un corpo prigioniero, e come questa immagine sia divenuta via via spartiacque per scelte fino ad allora rimandate, abbia fatto nascere domande e conflitti interiori non più risolvibili con slogan o con pratiche ideologiche. 

Ho raccontato le mie storie, prima ancora che su un palco teatrale, davanti a una telecamera; l’emozione della diretta televisiva è cosa diversa dall’eccitazione inquieta con cui ogni volta entro in scena a narrare. 

Ora torno sulle tavole di legno a me care, non devo più cercare l’occhio di una telecamera, ma gli occhi di spettatori in carne e ossa; non sarò né personaggio né narratore esterno, questa volta, ma io stesso narrante, un’esperienza nuova, una messa in gioco del personale, una dichiarata visione soggettiva di quegli anni. 

Amici, compagni, avversari, potranno avere i giusti motivi per non essere d’accordo o per trovare identità, per quelli che non c’erano, i giovani d’oggi, sarà come visitare un mondo che appare tanto lontano, quasi incredibile; spero che per tutti, come è già accaduto dopo la trasmissione televisiva, scatterà il desiderio di parlare, di contraddire con altri racconti: è un modo di uscire allo scoperto, di raccontarsi agli altri, di rievocare quei tempi difficili e densi. 

Quando si esce da momenti e tempi in cui la vita è stata pregna di avvenimenti, quando il vivere è sembrato intenso anche nel dramma, dopo, col tempo, ci si sente sempre un po’ stranieri, come reduci, testimoni di eventi troppo densi per essere dipanati. Camus dice “Non essere ascoltati: è questo il terribile quando si è vecchi”. Il narratore compie sempre questa sfida, straniero nel tempo cerca di vincere con il racconto la vecchiezza che stende sulle cose del mondo un manto spesso di oblio.  

Lavoro da 25 anni con Marco Baliani, a volte come drammaturga, a volte come attrice, in questo caso come regista. Nella nostra idea di teatro c’è una stretta relazione tra i vari elementi che compongono e determinano la creazione teatrale. 

Si delinea un’ipotesi drammaturgica, spesso preceduta da una ricerca letteraria, tematica; in forma di canvaccio, di domande che il regista pone, di improvvisazioni, questo materiale viene passato all’attore, lievita, ritorna, nello scambio continuo sviluppa strade possibili. Comincia così a disegnarsi una possibile “mappa”, così la chiama Marco, fatta di crocicchi, luoghi da visitare, territori ancora da esplorare e soprattutto strade diverse tutte possibili per raggiungere luoghi individuati. 

Lo spettacolo che ne scaturisce è una delle possibili strade individuate per percorrere luoghi tematici che si vogliono visitare. 

Nel caso di Corpo di Stato, questo lavoro già complesso è stato caratterizzato da una particolarità: stavamo creando uno spettacolo teatrale, che però avrebbe visto il suo debutto in una diretta televisiva. Rai Due l’avrebbe mandato in onda dai Fori Imperiali di Roma la sera del 9 maggio 1998. Definire teatralmente il racconto per poi immediatamente tradurlo, perché potesse avere un’efficacia attraverso un altro “mezzo”, tenendo conto dei tempi, dei ritmi, della sintesi, nonché dei vincoli tecnici imprescindibili in una comunicazione televisiva. 

Quando in autunno, dopo il successo televisivo, abbiamo ripreso il lavoro per portarlo finalmente in teatro, la prima sensazione è stata quella di sentirmi padrona del tempo. Mi sono sentita accolta dal respiro più ampio che ha il tempo in teatro, e nella struttura già configurata si sono aperti spazi di approfondimento, il disegno drammaturgico si è ridefinito. Questione di secondi, a volte, o di minuti, indugiare su una domanda di non facile risposta, il poter ritornare su certi concetti condividendo con lo spettatore quel tempo. 

È andata via una parte di testo, che se necessario pensando al grande pubblico della diretta, non lo è più in teatro, dove fra il narratore e il pubblico c’è una maggiore affinità, una relazione più “intima” e condivisa. 

Dal lavoro televisivo sono rimaste delle indicazioni preziose. Nella trasmissione c’erano degli stacchi di quindici secondi, un montaggio di immagini di quegli anni su un sonoro tratto da telegiornali, comunicati radio di quei giorni, frammenti di musica di quegli anni. Immagini non didascaliche che avevano più che altro la funzione di attivare una “memoria emotiva” in chi allora non c’era. 

Nello spettacolo teatrale le immagini sono rimaste, come un contrappunto visivo e sonoro alla parola del narratore, si è modificata la loro durata, la dimensione, il ritmo. 

Il grande schermo di fondo è anche un po’ “la grande Storia” da cui il narratore entra ed esce. 

Dirigere un narratore in un racconto è cosa diversa che dirigere un attore in un monologo. 

Un vero narratore, quando è tale, ha un modo d’essere sulla scena che appare del tutto organico, come se tempi, ritmi e gesti appartenessero a un “sapere” dove le tecniche affabulatorie sono state interiorizzate a punto di divenire “naturale” veicolo di quell’espressione. 

Allora la funzione del regista in quella parte che riguarda la direzione dell’attore, è qualcosa che assomiglia a far volare un aquilone: bisogna corrergli dietro, stare insieme a lui col vento per farlo volare più alto, tenere un filo sottile che possa richiamarlo a terra se necessario, per evitare che si impigli o si perda. 

20 ANNI DOPO: IL SENSO DI UNA RIPRESA 

In una recente intervista il figlio di Aldo Moro, Giovanni, insisteva a parlare del padre come di un fantasma senza requie e riposo, a cui è stata negata la verità della sua morte.

Sono trascorsi quaranta anni da quella morte.

Venti anni fa avevo cercato di parlarne attraverso uno spettacolo unico nel suo genere, Corpo di stato, in cui ero in scena in prima persona, raccontando con la massima sincerità possibile, cosa erano stati per me e per quelli intorno a me i cinquantacinque giorni di prigionia di Moro, a Roma.

Ho deciso di riproporre lo spettacolo in questa occasione speciale, anche se mi costa molto rinnovare la memoria di quei giorni, degli amici e compagni che non ci sono più, di quello che non capimmo allora, di quello che avremmo potuto fare e non abbiamo fatto.

È uno spettacolo necessario credo per chi lo ascolta, ma doloroso per me che rivivo quegli anni, con la spietata forza che ha il teatro di costringere il passato a rinnovarsi.

Riporto in scena Corpo di stato perché i fantasmi devono poter avere pace. Non possono essere semplicemente dimenticati. Finché non si scoprirà chi ha ucciso il re Laio, la città di Tebe resterà appestata. Una peste morale, più terribile di quella fisica. Insieme ad Aldo Moro molti sono i fantasmi a cui questo paese non è riuscito a dare vera sepoltura, dai morti della banca dell’Agricoltura, a quelli della stazione di Bologna, a quelli di Ustica e molti altri ancora.

Per questo siamo ancora un paese appestato. E per questo occorre continuare a dare voce e respiro al nostro passato prossimo. Con sofferenza, ma non posso che tornare a parlarne.