Eduardo De Filippo e Luigi Pirandello sono due autentiche anime sacre che aleggiano sempre quando si parla di Teatro, ma, più in generale, di arte. Due vanti del nostro Paese, che continuano a portare avanti le loro opere, al di là del tempo passato. Ebbene, queste due anime, questi due modi di creare la magia della scrittura e della recitazione, si sono incontrate in una commedia scritta proprio da entrambi nel 1935: “L’abito nuovo”.

Appartenente al filone della ‘Cantata dei giorni pari’, “L’Abito nuovo” rappresenta un adattamento di una novella dello stesso autore siciliano dal titolo omonimo. La prima rappresentazione, avvenuta a Milano al Teatro Manzoni il 1º aprile 1937, pochi mesi dopo la morte di Pirandello, ebbe un’accoglienza tiepida: Peppino De Filippo, profondamente avverso all’abbandono della drammaturgia napoletana in favore di adattamenti di opere altrui, criticò aspramente la scelta drammaturgica del fratello, sebbene figurasse nel ruolo di Concettino Minutolo. Nel 1964 Eduardo riprende la commedia in un’edizione televisiva in onda sulla Rai, che oltre a lui vede tra gli interpreti Ugo d’Alessio, Carlo Lima e Pietro Carloni.

L’abito nuovo – La trama

A Napoli, il modesto impiegato Michele Crispucci vive a Napoli con la figlia Assuntina, fidanzata con Concettino. Quando in città arriva la carovana del circo dove lavora l’ex-moglie di Crispucci, che ha abbandonato marito e figlia per condurre una vita licenziosa, il giovane decide di lasciare Assuntina temendo che il buon nome della famiglia si sporchi.

Il ricordo di Eduardo di quei 15 giorni di scrittura con Pirandello

Proprio nel prologo della suddetta rappresentazione televisiva, lo stesso Eduardo, rivive i momenti della creazione dell’opera “con viva commozione”.
“Una sera – ricorda Eduardo – recitavo la commedia ‘Chi è più felice di me’. In un palco di prima fila c’era Luigi Pirandello. Vennero di corsa nel mio camerino per dirmi ‘C’è il maestro in Teatro’. Fecero molto male. Non si dice mai a un attore che c’è un grande personaggio in teatro. Quest’attore perde la carica. Si costruisce una volontà superiore a quello che dev’essere, perché per rendere il massimo di quello deve rendere dev’essere stanco. Se non è stanco non rende”.

“Quella sera – prosegue – io misi tutta la mia forza per recitare quella parte. Recitavo per una sola persona. Per lui. Per Pirandello. E mentre recitavo pensavo ‘Forse sto esagerando, forse sto recitando male la mia parte. Forse dopo il primo atto questo personaggio lascerà il Teatro’. E per tutti questi motivi, proprio dopo il primo atto me ne tornai in camerino amareggiato, ma due colpi alla porta mi avvertirono: ‘C’è il maestro, Luigi Pirandello’. E mi apparve questo enorme personaggio. Finalmente conobbi quello che per anni avevo ammirato. Cui per anni avevo desiderato stringere la mano”.

“Si mostrò generosissimo negli apprezzamenti e mi invitò a cena. Lì – afferma – presi coraggio e gli dissi: ‘Maestro perché non scrivete una commedia per noi’. Lui rispose: ‘Ma io non posso scrivere in dialetto napoletano. Scriviamola insieme’. Questa era la sua bellezza. Era giovane. Lui si metteva con i giovani. Lui non si sentiva un santone sotto una campana di vetro, irraggiungibile, al quale i giovani non si potevano avvicinare. A Pirandello ci si poteva avvicinare. Con Pirandello si poteva parlare a tu per tu. Gli dissi di aver letto una sua novella, L’abito nuovo. Mi disse di dover partire per l’America per un giro di conferenze. Che al ritorno avrebbe portato la trama e per dialogarla ci saremmo visti insieme”.

“Il giorno del suo arrivo, per 15 giorni a Roma, mi recai a via Bosio per la stesura della commedia. Pirandello – sottolinea – aveva già fatto tutta la trama e così di fronte a lui, allo stesso tavolo, io dialogavo la commedia in dialetto. Sotto la sua dettatura. Lui in lingua o in siciliano e io in napoletano. Finimmo con l’essere collaborativi. Qualche volta io dicevo ‘No questo non va, mi sembra un po’ troppo aspro’. Venivo da un teatro un po’ umoristico, macchiettistico. E la sua esasperazione mi appariva un po’ sgradevole in certi momenti e non glielo nascondevo. Lui accettava questi miei consigli e io me ne sentivo orgoglioso”.

“In 15 giorni finimmo la commedia. Uscivo dalla sua casa come un collega, ma l’indomani quando tornavo a suonare il suo campanello mi batteva il cuore. Finita la commedia, però, ebbi la sensazione di trovarmi di fronte a un dramma troppo aspro per quell’epoca, tanto da rimandare di volta in volta la messa in scena. Lui mi scriveva molto e finalmente dopo un anno mi decisi a mettere in prova la commedia al Teatro Quirino di Roma. Lui presenziò alla prima prova. Soltanto alla prima prova. L’indomani – con voce commossa conclude – ebbi una telefonata dal figlio Stefano. Mi disse ‘Papà sta poco bene, vai avanti tu con la prova. Domani o dopodomani lo vedrai arrivare’. Andai avanti ancor aper tre giorni. Il quinto giorno Pirandello non c’era più”.

Eduardo e Pirandello nei panni di allievo e maestro

Il racconto di Eduardo, testimonia quanto abbia sentito vicino Pirandello in quei soli 15 giorni, che, però, hanno visto la collaborazione di quei due geni assoluti. A dispetto del fatto che Pirandello si trovasse nei panni del maestro e De Filippo, in quelli insoliti dell’allievo. Fu quello, però, per Eduardo, il primo vero segnale di distacco dal fratello Peppino e dal Teatro messo in scena fino ad allora. Alla ricerca di qualcosa di più profondo. Quello che, forse, senza quella collaborazione, non ci sarebbe mai stato. Quello che, negli anni a venire, abbiamo avuto modo di ammirare ed amare. Che ancora oggi portiamo dentro. Come lui, senza dubbio ha fatto con il ricordo di quei 15 giorni.